Un post interessante di Thoughts of a bohemian, questa mattina. Dice bene quelle che dovrebbero essere ovvietà, ma che non lo sono, a proposito dell’inquinamento visivo a cui siamo sottoposti da tutti i media, nessuno escluso, che consultiamo ogni giorno:

Photography should be a revolutionary act. It should be a kick in the establishment, the common, the mundane. It has to be an act of revolt against banality and conformity, a powerful explosion of new ideas. It should be as violent to the mind as a thousand thunderstorms. It should rip apart the accepted socialfabric . It should denounce, point, accuse and solve. In one frame. It should be a declaration of war to everything we take for granted and accept as obvious.

(…)

Too much of what we see today in photography ( thank you, commercial stock) is a sea of banality, of repetition, of dullness. It is status quo and no more. A long straight road of  boring pre digested concept. Like a TV dinner : Please reheat and serve hot. Millions upon millions of images that rote just a few days after being exposed, so much full of artifice they are. A constant stream of annoying visual buzz that we hardly notice anymore.

Vero: la maggior parte delle fotografie che vediamo sui magazine, su siti di informazione, e ovunque capiti di incappare in una immagine, appartengono alla categoria “rassicurante-con-brio”. Nessuno sguardo nuovo e fresco sulla realtà, nessun interrogativo. Solo conferme visuali di quello che si legge, o di quello che si vuole trovare. Illustrazioni, didascalie, se vogliamo chiamarle in un altro modo.

Questo mi ricorda quello che da tempo va sostenendo Sandro Iovine (che mi onora della sua amicizia….): la qualità delle immagini scelte dall’industria, e dai suoi responsabili, tende costantemente verso il basso. Sandro punta sulla questione commerciale: con il calo delle vendite, i photo editor devono per forza fare scelte che sono influenzate più dalla sintonia delle immagini giornalistiche con le pubblicità, che non dalla qualità giornalistica o dal racconto della realtà. Detto altrimenti: non si può stupire il lettore con immagini nuove, se si vuole che il lettore guardi la pubblicità (e che il committente la pubblicità continui a metterla…).

A questo problema strutturale, poi, si accompagna secondo me quello culturale. Industria editoriale, giornalisti e pubblico, ormai, non sono più abituati allo scavo nella realtà, ma semplicemente alla conferma rassicurante. Conferma delle proprie opinioni, dei propri stereotipi, delle proprie paure. E la fotografia non è esente da questo processo.

Che fare, quindi, nel momento in cui le produzioni fotografiche di qualità e di ricerca non hanno sbocco presso il pubblico, se non attraverso il ghetto perverso delle esposizioni (per cui una foto è esposta in quanto opera d’arte, e non come racconto)? Secondo me (ed ecco che sto per scoprire l’acqua calda), il tanto vituperato internet sarà la salvezza. Quando il mondo giornalistico si toglierà di dosso la polvere, e capirà che il sistema di distribuzione digitale offre risorse dal valore – anche economico – incalcolabile, cominceranno ad apparire molto più spesso reportage giornalistici di qualità, sotto diverse forme. Il punto è che, per il momento, l’impostazione generale è quella di traslare, sul mezzo elettronico, modi e tempi comunicativi che sono propri del mezzo cartaceo. Quindi, molto spesso ci si orienta a un pubblico generalista, che per ovvie ragioni (le quali, quando si guarda bene, ovvie non sono mai) sembra non gradire molto questo genere di produzioni.

La mia idea, e la mia speranza, è che presto nasceranno dei contenitori giornalistici di qualità raffinata, anche in Italia, anche nel vecchio, pachidermico e corporativo mondo giornalistico italiano. Contenitori in grado di segmentare il proprio pubblico, e che, nella consapevolezza di non rivolgersi (di non doversi rivolgere) “a tutti”, faranno una buona differenziazione dei prodotti giornalistici offerti. Più spazio per servizi di qualità, senza competere con contenitori generalisti, che danno notizie brevi e raffazzonate. E il risvolto positivo potrebbe anche essere che le testate cartacee, una volta capito che non possono più competere con internet quanto a velocità e spazio per le notizie, dovranno orientarsi, per sopravvivere, ad altro. Come, ad esempio, approfondimenti che sarebbe impossibile, o difficilissimo, pubblicare solo su internet (qualcuno ha mai provato, ad esempio, a leggere un intero servizio di National Geographic, foto incluse, su internet? Ok, si può fare. Ma vogliamo davvero paragonarlo alla versione cartacea?).

Il risvolto negativo, molto negativo, è che per arrivare a questo genere di modello molte testate dovranno chiudere, o ridimensionarsi grandemente. Contrazione. Il che, spesso, porta anche alla concentrazione. Certo non mi rallegra, l’idea che a permettersi il giornalismo su carta, in Italia, possano essere solo due-tre gruppi editoriali. Ma è vero anche che la situazione di crisi attuale è dovuta ad una frammentazione patologica, che non ha uguali nel mondo.

Penso che l’anno appena iniziato porterà diverse novità nel panorama editoriale. Ora vediamo come si potranno gestire queste novità.

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