Ci sono un mucchio di cose in costruzione, in questi giorni, di cui terrò informati i miei due lettori. In questo momento sono a Palermo, per parlare con un tipo di una redazione, e per fare un paio di piccoli lavori (una fabbrica di coppole, e vorrei andare a curiosare a Termini Imerese, per vedere che aria tira). Il prossimo mese mi installerò in un nuovo studio a Milano, ho diversi reportage in preparazione, e in generale ci sono un sacco di buone cose all’orizzonte.

In questi giorni, per chi non se ne fosse accorto, sono stati annunciati i vincitori del World Press Photo. La foto dell’anno è di un italiano (della mia età, e che vive a Napoli: da parte mia, il quadruplo di complimenti), e ben altri 9 italiani hanno vinto qualcosa (tra cui Luca Santese, uno dei miei amici di Cesuralab). Ora: non c’è più bisogno di sottolineare come il fotogiornalismo italiano sia di qualità ben superiore alla media a cui ci abituano le testate italiane (anche perché altri lo hanno fatto meglio di me). Qui vorrei solo notare un paio di cose. Per esempio, che la maggioranza dei lavori è realizzata all’estero. Di solito il canto giaculatorio, a metà tra il moralistico e il compiaciuto, è “ma i nostri fotografi sono delle fighette, quand’è che parleranno di Italia?”. Buona domanda. A cui, fino a poco tempo fa, avrei risposto che si, in effetti, la tendenza a lavorare all’estero…. Ma poi uno si ricorda di come la fotografia viene trattata per tutto l’anno dai giornali italiani: approssimazione, banalizzazione, tette, culi, fotoricatti, teste parlanti, didascalizzazione pedante. La verità è che ai giornali italiani l’Italia, così come viene presentata dai fotogiornalisti italiani, non interessa. Non la vogliono. Vogliono di più l’immagine plasticosa e prefabbricata e sciatta che dell’italia si ha nelle redazioni.

Prova del nove? Nessuno (nessuno) dei lavori italiani premiati al World Press Photo è stato commissionato. Vuol dire che ai giornali italiani il buon fotogiornalismo, semplicemente, non interessa.

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