Sono ancora impegnato a fotografare la Settimana Alfonsiana (qui un resoconto della prima giornata). Ritratti degli ospiti (ieri ho fotografato Vito Mancuso, oggi è il turno di Guglielmo Epifani) e della situazione. Fatta eccezione per le luci, neon ai vapori di sodio che mi fanno venire gli incubi da due notti, non è una situazione di per sé molto impegnativa, così posso ascoltare le conferenze, che sono organizzate come esecuzioni diverse di un unico tema centrale, tratto dalle Sacre Scritture. Così, il teologo dà il suo punto di vista, lo scrittore – giornalista un altro, il filosofo un altro ancora, e così via. Il tema di quest’anno è “chiunque teme Dio e pratica la giustizia, a qualsiasi popolo appartenga, è a lui gradito”

Purtroppo non ci sono critici d’arte o fotografici, sarei stato curioso di sentire come avrebbero interpretato il tema della giustizia tra gli uomini. Lo suggerirò agli organizzatori, per il prossimo anno. Un’idea che mi è venuta, riguardo immagini e giustizia, è che molto spesso, per farsi un’idea della situazione, e governare, le classi dirigenti hanno bisogno di immagini. Immagini che dipingano la situazione, immagini che a volte vanno interpretate, ma che diventano un importante strumento di controllo.

Sto pensando, per esempio, al contributo incredibile che la cartografia, la fotografia da satellite, l’elaborazione di dati visivi di varia provenienza danno nel movimentare risorse e potere ai giorni nostri. Immagini satellitari di una inondazione, paragoni tra le stesse foto di un’area colpita da un terremoto, fotografie di reportage, sono gli strumenti più potenti di cui i mass media di oggi dispongono per movimentare l’opinione pubblica e svolgere una funzione di decisione dell’agenda politica. In altre parole, la gestione delle immagini fisse, insieme alla parola scritta e ai video, varia il modo in cui risorse materiali e simboliche vengono allocate. Dunque, in definitiva, hanno un influsso deciso su come la giustizia viene somministrata ai governati.

Sono convinto che le immagini fisse abbiano molto più potere, in questo senso, e che lo abbiano acquisito soprattutto negli ultimi anni. Ma, come sempre, c’è il rovescio della medaglia. Se è vero (e penso lo sia) che un’immagine fotografica, in quanto tale, ha sempre un grado di menzogna al suo interno, allora tale menzogna può essere utilizzata per praticare e incoraggiare le ingiustizie. Mostrare cose che non avvengono, o tacere cose che invece avvengono. Per tornare all’esempio delle immagini satellitari, le foto possono mostrare la distruzione, ma non le cause profonde di quella distruzione. Ed è un meccanismo che chi comanda conosce benissimo, saturando tutti i canali di comunicazione con immagini, quando succede qualcosa di controverso. In questo modo, abbiamo l’illusione di sapere ed essere informati; ma lasciamo passare sostanzialmente intatte tutte le ingiustizie che sono connesse al fatto controverso.

Per esempio, le foto di Abu Graib hanno contribuito a svelare e a porre rimedio ad una situazione di palese ingiustizia, in cui carcerati erano torturati e seviziati. Il giusto scandalo, le scuse dell’amministrazione americana, il dibattito sul trattamento equo dei prigionieri, hanno sempre però evitato accuratamente una domanda fondamentale: era giusto, o meno, che gli statunitensi fossero lì in Iraq? Ok: domanda che veniva posta in altre sedi e occasioni; e a cui non si poteva dare risposta in modo secco. Ma qui quello che mi preme è questo: di fronte al maggiore scoop fotogiornalistico del decennio, si aveva l’illusione che un’ ingiustizia fosse venuta a galla e punita, mentre in realtà ne passava sotto silenzio una ancora maggiore.

Come sempre, quindi, bisogna contestualizzare le immagini, e chiedersi chi le abbia prodotte e con quale scopo. La scuola del reportage fotografico si basa su un vecchio, nobile assunto, che vorrebbe il fotoreporter impegnato a scovare e mostrare le ingiustizie del mondo. Questo assunto non ha per niente perso valore, anzi, è più attuale che mai. Ma si deve tenere presente che le immagini di reportage potrebbero essere usate per perpetrare altre ingiustizie, più subdole, o per tacerne altre, o ancora per narcotizzare chi potrebbe chiedere conto di quelle ingiustizie. La fotografia non è mai giusta, o ingiusta, di per sé. Lo diventa.

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