Qualche giorno fa sono andato a vedere la mostra di Doisneau al Forma. Fotografo, Doisneu, di cui conoscevo pochissimo: ha lavorato per tutta la sua vita a Parigi, bianco e nero, e soprattutto Il Bacio, quello famoso, quello che finisce su tutte le copertine di libri di storie amorose. In Italia, per qualche ragione, quella foto viene spesso associata alle poesie di Nazim Hikmet:

[singlepic id=233 w=240 h=320 float=]

Ho interrogato Google sul perché di questo legame, ma non sembra esserci stato qualche incontro storico tra i due. Scelta dei grafici, dunque. Chissà perché proprio Hikmet e non altri poeti che hanno parlato d’amore….

In ogni modo, sono andato alla mostra senza sapere tanto di Doisneau, neanche come si pronunciasse il suo nome (la signorina della biglietteria lo pronuncia Duanò), ma, anzi, con qualche preconcetto in testa. Mi ero figurato il tipico sedentario intellettualoide francese, concentrato sul mettere la France in ogni sua cosa, un pò di basso profilo ma che produce cose di un certo valore. E, come dire? Avevo ragione. Ma tutto quello che mi era sembrato un difetto, dopo aver visto la mostra, è diventato un pregio.  Era sicuramente sedentario, ma è riuscito a tirare una varietà visiva impressionante dalla sua città, con uno stile marcato, personale e molto, molto profondo. Non uno sguardo da sprovveduto, insomma.

E’ che spesso alle mostre uno si aspetta seriosità e gravità, specie quando vengono affrontati temi come la povertà. Ma Doisneau, nell’affrontare quei temi, non rinunciava mai a impiegare uno stile costante, un’ironia divertita, che funzionava sia da scudo, sia da aiuto visivo alla comprensione. Un’ironia, in altre parole, che era figlia non della leggerezza (la quale, comunque, era un approccio costante nella fotografia di Doisneau), ma della delicatezza:

[singlepic id=234 w=420 h=340 float=]

E quella delicatezza dello sguardo, quell’ironia divertita, è stato il filo costante di tutta la mostra, e, credo, dell’opera di Doisneau. Un’ironia che a volte nasce semplicemente nel mondo, e Doisneau si limitava a registrare:

[singlepic id=235 w=420 h=340 float=]

Altre volte, invece, l’ironia veniva composta in macchina dallo stesso fotografo:

[singlepic id=236 w=420 h=340 float=]

Questo mi ha fatto tornare in mente un tema, di cui ho letto in Educare lo Sguardo di Roswell Angier. Ci sono foto in cui il fotografo deve limitarsi a riprendere quello che succede davanti a sé. E’ il caso, per esempio, di gran parte del fotogiornalismo, per come viene interpretato normalmente. Esiste un fatto, che il fotografo reputa degno di essere conservato visivamente, e viene ripreso. Altre volte, però, i fatti sono del tutto mentali, appartengono più a un ragionamento del fotografo che al mondo reale, e in quel caso vengono costruiti in macchina. Nel mondo non succede nulla, è nella fotografia che sta succedendo qualcosa. Un maestro in questo senso è Robert Frank, che nel suo The Americans raramente ci mostra delle cose che succedono, e più spesso le mette insieme, visivamente, su pellicola. Oltre a fare parlare tra di loro diverse fotografie, creando altri fatti, che sono tali solo in quanto presenti sulla pellicola.

Ecco, mi sembra che Doisneau preferisse questo approccio. Non che disdegnasse altri metodi. Ma guardando la mostra, si ha quasi l’impressione di vederlo, silenzioso, messo in un angolo, a guardare nel mirino. Si riesce a sentire il silenzio che, spesso, doveva aver pervaso lo sguardo, anche quando le situazioni che inseguiva erano rumorose:

[singlepic id=242 w=420 h=340 float=]

La mia parte preferita della mostra, come sempre, è stata quella delle teche in cui erano esposti ritagli di giornale, pubblicati, lavori “collaterali” come quello di pubblicitario. Così, ho potuto scoprire cosa facesse Doisneau quando non utilizzava l’approccio “silenzioso”. Pubblicità per l’olio Calvé, oppure una sorta di candid camera ante litteram, in cui la foto di una donna nuda veniva messa in una vetrina, e venivano fotografate le reazioni dei passanti. E’ stata la parte più esilarante della mostra. Accanto a questi ritagli, c’era anche un reportage sulla libertà degli amanti a Parigi: la gente si baciava per strada senza curarsi delle reazioni altrui, i poliziotti guardavano in modo indulgente, e a Parigi trionfava l’amore. Ho scoperto così che Doisneau non ha fotografato solo quel bacio, ma diversi, e con una piena consapevolezza della differenza tra bacio e bacio:

[singlepic id=237 w=320 h=240 float=] [singlepic id=238 w=320 h=240 float=] [singlepic id=239 w=320 h=240 float=]

Un fotografo, insomma, che conosceva bene il suo mestiere, e che non si poneva barriere sull’utilizzo della sua macchina fotografica. In qualsiasi campo si cimentasse, riusciva a mettere la sua ironia, il suo sguardo leggero e la sua maestria.

Quel bacio, poi, è diventato talmente iconico da essersi meritato il maggior riconoscimento dei nostri tempi: la riproduzione Lego.

[singlepic id=240 w=420 h=340 float=]

Ma, come ogni mostra che si rispetti, c’è stata anche la scoperta inaspettata. In questo caso, dato che era inclusa nel biglietto, ho anche guardato la mostra del Prix Pictet. C’era, visto il tema (la Terra) un bel pò di reportage. Ma il vincitore mi ha colpito parecchio. Si tratta di Nadav Kander, fotografo di Londra. Guardando il suo sito, ho scoperto che ha lavorato molto nella pubblicità e nel ritrattismo, e che i suoi progetti personali, molti dei quali di tipo paesaggistico, sono eccezionali. Come quello sullo Yang Tze, che ha vinto il Prix Pictet:

[singlepic id=241 w=420 h=340 float=]

Immagini che, a dire il vero, sono meglio da vedere esposte. Ce ne sono ancora un paio al Forma di Milano. Assicuratevi di leggere anche il testo introduttivo al progetto, sul sito di Kander.

(per tutte le foto del post tranne le ultime due il credit è di Robert Doisneau. Per l’ultima foto il credit è di Nadav Kander)

Previous ArticleNext Article

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.