Sono ancora in Sicilia, per lavorare al mio progetto sulla costa del sud. Essendo ancora proprio agli inizi del progetto, ho stilato una lista di cose che sono curioso di fotografare, per avere qualcosa che mi spinga a uscire fuori di casa. Poi, cerco di lasciare aperto il flusso, cercando di non farmi condizionare troppo dalla lista stessa, e di fotografare le cose che mi colpiscono.
Qualche giorno fa, per esempio, ho visto una barca a vela tirata in secca, su una spiaggia, e anche se non era nella lista l’ho fotografata. Soprattutto perché dietro si muoveva un cagnolino, che ha attraversato tutta la spiaggia, e il mare stava cominciando a diventare burrascoso. Insomma, a un certo punto le cose hanno cominciato a incastrarsi. Di fatto, di fronte a me stavano succedendo un mucchio di cose, ma dubito che qualcuno senza una macchina fotografica lo avrebbe capito. C’era un cane che passeggiava, delle nuvole, una barca, ed è stato l’occhio, con la macchina fotografica, a metterle insieme.
Cose come queste, l’improvvisazione che ti porta a scoprire cose che non avevi neanche immaginato, o la costruzione di fatti, eventi e caratteri dentro la fotocamera, succedono di continuo quando fotografi. E’ come se a un certo punto le cose si allineassero, per una combinazione di caso e volontà di forzarlo (se non fossi uscito di casa a fotografare, e se non avessi scelto di andare in spiaggia mentre ci sono le nuvole, non avrei visto nulla). Ne hanno già parlato diversi fotografi e critici, ben più autorevoli di me. Su tutti, Robert Frank, il cui “The Americans” è interamente basato su richiami di questo tipo, le quali rendono il suo lavoro molto più di tipo poetico e musicale, che di reportage in senso stretto. Dopo averlo letto tante volte sto cercando di sperimentarlo anch’io.
E’ interessante vedere come questo genere di concordanze nate dall’improvvisazione vengano gestite in un linguaggio visivo diverso, quello della pittura. In questo caso si ha poco modo di fermare l’attimo, di collimare le cose su un vetrino o una tela; se non altro, per una questione di rapidità di esecuzione, che, per quanto possa essere veloce un pittore, non potrà mai eguagliare quella di una fotografia. Al contrario, credo che il pittore abbia molte più cose da mettere contemporaneamente sulla tela: non c’è bisogno che tutto sia presente fisicamente di fronte a lui.
Ho pensato a tutto questo osservando le opere di Rob Gonsalves, pittore canadese dal tocco magico, che alcuni hanno paragonato a M.C. Escher. Può darsi: i temi, i giochi con la prospettiva, lo ricordano molto. Però, dove Escher sembrava più concentrato sull’aspetto matematico dei suoi lavori, Gonsalves privilegia di più quello onirico – magico. Il linguaggio è simile, ma il mondo che descrive mi sembra del tutto diverso. Soprattutto, Gonsalves sembra usare, e parecchio, quel genere di improvvisazione controllata di cui parlavo prima. Il pittore canadese fa succedere delle cose, non mettendo delle azioni nei suoi quadri, ma semplicemente giustapponendo immagini e concetti:
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Il vento che danza, reso attraverso una modulazione tra le tende e i danzatori. Notevole, no?
Altre volte, la giustapposizione era lì, presente nelle menti di tutti, e Gonsalves si limita a renderla visibile:
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Ma le mie preferite sono quelle in cui le sfasature prospettiche sembrano fare il verso a certi giochi a che il linguaggio fotografico usa molto spesso. Ci sono le differenze di grandezza tra soggetto e sfondo, l’esibizione della tecnica con cui si rende la profondità in una superficie piana, e le immagini dentro le immagini che descrivono il soggetto:
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Mi piace tantissimo l’idea di descrivere ogni ruolo sociale attraverso l’architettura di cui di solito si serve, e mi sembra anche parecchio ironico il mostrare in questo modo la burocratizzazione estrema di certe funzioni essenziali della società. Non solo, ma questa ironia si realizza proprio in questo gioco di immagine nell’immagine, per cui non si sa più chi rappresenta cosa, e chi è inghiottito da cosa…..
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In questo caso, l’autoreferenzialità è portata all’estremo: il puzzle è completato da sé stesso, il soggetto dell’immagine è completato da altri pezzi della stessa immagine. Il riferirsi a sé stesse delle immagini di Gonsalves mi fa tornare all’improvvisazione che fa costruire eventi solo e unicamente dentro la fotocamera. In un certo senso, foto di questo genere sono sempre autoreferenziali, dato che rimandano ad una realtà che è solo, ed esclusivamente, fotografica, che si può trovare solo in quella o in altre foto. Ma spesso questa autoreferenzialità è meno esibita, più mimetica, di quella dei quadri di Gonsalves. A volte (come nel caso delle classiche foto in cui si fa finta di sostenere la torre di Pisa) viene fuori più chiaramente. Ma è come se fosse molto più difficile farla emergere, visto che, apparentemente, è tutto normale. C’è una strana ritrosia, da parte della fotografia, a parlare direttamente di sé stessa. Forse è per questo che un sacco di fotografi hanno passato la vita a farsi autoritratti: non volevano descrivere sé stessi, volevano descrivere come la fotografia li cambiava.
Tutta questa autoreferenzialità e questo guardarsi l’ombelico, comunque, mi ha fatto venire voglia di leggerezza. Mi sa che il prossimo lavoro che farò lo farò in Australia, sul surf.
(credit per tutte le immagini: Rob Gonsalves. Una galleria completa dei suoi lavori può essere vista QUI)
Che bravo ! che belle le tue foto, soprattutto lo straordinario uso della luce.
Grazie Enrico!