Qualche aggiornamento su ciò che succede nel Canale di Sicilia, in attesa che “Segno” pubblichi il nuovo numero in edicola, e quindi di poter pubblicare su questo blog l’articolo Un canale, due modelli che ho scritto proprio sull’assalto petrolifero al Canale.

Negli ultimi giorni si sono succedute diverse notizie, che riguardano il petrolio nel Canale di Sicilia. Una buona sintesi è data da questo articolo, oltre che dagli Echi di stampa di Guido Picchetti, un instancabile lottatore per i diritti del mare. Dal maggio 2010, società sconosciute e dalla consistenza ambigua (capitali sociali risibili, sostanziale impossibilità di rintracciare i responsabili) stanno inondando i comuni siciliani di richieste di permessi di prospezione ed estrazione petrolifera. In un caso, sono stato osservatore diretto delle modalità con cui i permessi venivano richiesti. Ricordavano molto i modi della burocrazia degli anni ’50, che approfittava dell’ignoranza del pubblico, e della piccolezza degli uffici di destinazione, per poter poi mettere di fronte al fatto compiuto le popolazioni.

Questo succedeva nel 2010. A un certo punto, un decreto del ministero dell’ambiente vietò ricerca ed estrazione petrolifera a meno di 12 miglia dalle coste. Come se 12 miglia fossero abbastanza, in caso di incidente (no, non lo sono. Guardate qui cosa sarebbe successo se il disastro della Deep Water Horizon avesse avuto luogo nel Canale di Sicilia, con epicentro a Pantelleria). Ma neanche questo limite ha spaventato le società petrolifere, le quali ritengono conveniente estrarre il petrolio dalle profondità del Canale a causa delle basse royalties richieste dallo Stato italiano. Insomma: conviene estrarre in Sicilia, se sei un petroliere.

Le cose si fanno più divertenti quando si va a scavare un pò. Come ha scoperto il comitato Stoppa la Piattaforma, nelle osservazioni al VIA presentate al ministero, le valutazioni di impatto ambientale sono state, in più casi, scopiazzate da altri documenti, redatti per altre zone (in alcuni casi, zone del mare Adriatico), e quindi la particolarità di questa zona non è stata per niente tenuta in considerazione. Ecco perché, quindi, non si è tenuto conto di qualche piccolo particolare: il fatto che i banchi del Canale siano in realtà le pendici di un edificio vulcanico sommerso, Empedocle, di cui fa parte anche l’isola Ferdinandea; il fatto che in questa zona c’è un’importante attività di pesca, che potrebbe essere seriamente compromessa (e va bene, a me non fa tanta simpatia la pesca industriale di questa zona, ma non mi piacerebbe vederla spazzata via dal petrolio); il fatto che il Canale sia un’oasi di biodiversità ed una zona unica dal punto di vista geologico, non ancora pienamente studiata, come rimarcato da Greenpeace nel suo rapporto, presentato proprio in questi giorni. Tutte cosette che potrebbero mettere in allarme le popolazioni della zona, che normalmente, invece, sono bene addormentate, e pensano al proprio cortile (e mi piacerebbe, un giorno, fare una riflessione proprio su questo, su quanto le grandi imprese e i grandi capitali puntino sulla proverbiale arrendevolezza siciliana per potere fare i propri comodi).

Ma le cose più offensive che sono emerse, secondo me, sono due. La prima, è che uno dei firmatari della valutazione di impatto ambientale per il permesso petrolifero a Pantelleria è l’amministratore unico della società che ha richiesto di poter estrarre petrolio. Se la canta e se la suona, in altre parole. Per di più, questo signore, sempre secondo le osservazioni del comitato Stoppa la Piattaforma presentate al ministero, firma la valutazione di impatto ambientale come geologo, essendo stato sospeso dall’albo. Questo, se qualcuno avesse ancora dubbi sull’utilità degli ordini professionali.

La seconda cosa offensiva, se fosse confermata, sarebbe ancora più grave (o normale, a seconda dal paese in cui vivete: se all’estero, o in Italia). Secondo un articolo del Fatto, lo scarso attivismo del ministro più interessato alla faccenda, la Prestigiacomo, sarebbe dovuto agli interessi diretti della famiglia Prestigiacomo nelle estrazioni petrolifere del Canale di Sicilia. Conflitto di interessi, in altre parole.

Ancora siamo alle schermaglie, credo. Le compagnie petrolifere stanno cercando di ottenere permessi di estrazione, e stanno cercando di farlo passando sopra la testa delle persone che abitano in quella zona. E’ un modo di agire che, in verità, si vede abbastanza spesso: ci si fa schermo della burocrazia e della correttezza delle procedure, per mascherare una sostanziale fuga dal confronto pubblico. Se si dovesse arrivare a un confronto vero con la popolazione della zona, si sa che bisognerebbe indorare la pillola, mascherarla da vantaggio. Ed ecco, infatti, che si hanno le prime avvisaglie. Tempo fa, un assessore regionale se ne uscì dicendo che il petrolio potrebbe rappresentare una fonte di lavoro. Ecco la parola magica: fonte di lavoro. Quando ai siciliani viene prospettata l’immagine dell’Imprenditore di Fuori che Porta Lavoro, vanno in brodo di giuggiole, non capiscono più nulla. Con questo metodo, quello del Portare Lavoro, è stato possibile cementificare le coste dell’isola, piazzarci qualche bel petrolchimico qui e là, e lasciare la gente in condizioni di sudditanza spinta.

Un altro modo è quello di richiamarsi alla Patria. E infatti, già si sente parlare di benzina a prezzo ridotto per i siciliani, perché le royalties del petrolio siciliano devono rimanere ai siciliani. Quelle poche che si riesce ad avere. Ma, in ogni caso, la retorica del meridionale derubato funziona in modo molto potente, in questi casi.

Quello che serve, allora, è coinvolgere la popolazione in senso opposto. Mostrare i vantaggi, a lungo periodo, della salvaguardia. Non del no al petrolio, e basta. Proprio della salvaguardia della zona. Tenere in forma il mare, proteggerlo dai petrolieri ma non solo, è la scelta più sensata che si può fare sul lungo periodo. Se no, si finisce di nuovo al vecchio modello del privato che si tiene tutti gli introiti, e scarica sul pubblico, sulla comunità, tutte le perdite, economiche e non. Si chiamano esternalità, non le ho inventate io, e sanno contabilizzarle molto bene, per lasciarle fuori dai bilanci e farle pagare a qualcun altro. Ma una salvaguardia vera si può fare solo coinvolgendo il più possibile la popolazione della zona. Non si può, in nessun momento, compiere lo stesso errore di comportamento, trasformarsi in un movimento minoritario ma organizzato, e imporre scelte, per quanto in buona fede, di salvaguardia ambientale. Bisogna decidere, una volta tanto, con più democrazia, non meno. Questa è la sfida attualmente in corso in questo piccolo spicchio di mondo, e sarebbe bene che tutti gli attori coinvolti ne prendessero coscienza.

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