I’m Doug Stanhope, and that’s why I drink.

Una cosa che manca davvero nella cultura italiana è la stand-up comedy. Mancano anche gli spoken word, che non sono proprio la stessa cosa, ma che secondo me rientrano nella stessa categoria di cultura fatta da persone con un microfono in mano e con qualcosa da dire. Per importare i poetry slam ci stiamo mettendo una vita, e per ora, da quello che so, sono ancora localizzati intorno alle grandi città, soprattutto Roma. C’è, insomma, un vuoto gigantesco nel panorama, dove dovrebbero esserci le persone che non sono necessariamente belle o dotate dal punto di vista della scrittura o della presenza televisiva, ma che vogliono comunque dire qualcosa e calpestare un palco.

Per entrare in un qualsiasi punto dell’industria culturale italiana bisogna per forza rientrare in uno dei canoni rognosi e puzzolenti di decomposizione che costituiscono la cultura italiana, un vero archivio ragionato di tipi umani: l’intellettuale pensoso, la canaglia, il politico paraculo, il duro e puro a fasi alterne, il poeta ritirato e metafisico, il filosofo che non si sa bene come riesca a farsi la barba la mattina e infatti non se la fa, la macchietta, il presentatore – contenitore vuoto, il cabarettista, il comico impegnatissimo. Al di fuori di questo, non c’è nulla.

Uno come Doug Stanhope, per dire, qui in Italia non esiste, non viene proprio fuori. E non solo perché Stanhope è folle e vive uno spirito tutto suo. Userei la definizione rock’n’roll, se non fosse che negli ultimi tempi il rock è conservazione pura, ma ci siamo capiti: Stanhope, soprattutto il primo Stanhope, è un concentrato di droghe, avventure assurde, strani pezzi gonzo – comic in cui racconta di cose viste in prima persona e le reinterpreta in due modi, attraverso la follia del momento che racconta e attraverso quella del momento in cui racconta. Rabbia e quella che una volta si chiamava voglia di spaccare. Ora, nel panorama conformista dell’Italietta di oggi uno così non viene fuori non solo perché i comici sono tutti impegnati a scodinzolare per racimolare qualche contrattino pubblicitario e qualche comparsata nei circuiti teatrali, ma perché nel panorama italiano Stanhope non sarebbe vendibile. Vedi sopra: o si rientra in una di quelle categorie, in grado di far cassa tra un pubblico che a molti piace vedere come conservatore, o non si hanno spazi. Silenzio, niente microfono.

Un altro che mi viene in mente è Scroobius Pip. Nasce come poeta, inizia a fare rap senza abbandonare gli spoken word, conduce programmi radio e fa regolarmente MMA. Qui in Italia siamo ancora ai gangsta de noantri, per carità, è l’unica vera ventata di novità degli ultimi anni, ma bisognerà introdurre altre idee prima o poi.

Naturalmente il problema non è solo di industria. Da noi manca proprio la tradizione, sia dello stand – up che dello spoken word, del recitare i propri versi davanti a un pubblico. Ma di nuovo, non riesco a non sentire il puzzo di vecchio. I nostri scrittori e poeti devono essere, per contratto, dei noiosi scassapalle che si guardano l’ombelico, che alla sola idea di confrontarsi con un pubblico vero rabbrividiscono e assumono la classica posa del tanto non mi capisce nessuno sono tutti dei cafoni. Stessa cosa per i comici: o cerchi di solleticare il pubblico basso, che a te conviene vedere come basso, e fare pezzi su cacca e guerra dei sessi, oppure cerchi di scrivere dei saggi a tesi politica e di metterci qualche risata di mezzo. La satira, questa sconosciuta.

Bellissima eccezione, in questo ragionamento, il collettivo Wu Ming. Che fa presentazioni, si spende coi microfoni e i ragionamenti, ha una bella libreria audio sul proprio sito, usa molto internet, mette insieme la scrittura il teatro e quant’altro e negli ultimi tempi ha anche messo su una band, in cui i testi non sono recitati ma neanche cantati, e insomma un bel mischione di idee che cercano espressione. Uno di loro è anche maestro di muay thai e chitarrista punk, vedete un po’. Non è che sia obbligatorio, essere degli scrittori noiosi. Si può anche essere altro. E c’è anche chi ci prova, a fare altro, e ci riesce. Ci sono gruppi che cercano di lanciare la stand up, ed esiste una Lega Italiana di poetry slam. Ma sono ancora piccole macchie. Bisogna diffonderle.

L’assenza di stand-up e di spoken word è una spia, il segno di una cultura che ragiona ancora a comparti fissi. Si dovranno trovare gli spazi prima o poi, iniziare a portare avanti le idee come si fa anche negli altri paesi, e non cercando in ogni momento l’approvazione della gang di riferimento. Appropriarsi dei microfoni, anche senza chiedere permesso.

Ascolto: Joe Rogan Podcast.

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