Sto ancora leggendo il bel libro di Evgeny Morozov, l’Ingenuità della Rete, che analizza l’idea diffusa in questo primo quarto di secolo secondo cui basterebbe fornire accesso a internet a popolazioni che non ne hanno per innalzare la domanda di democrazia e provocare il crollo dell’autoritarismo. Questa idea da tecnoentusiasti è data tanto per scontata che non viene quasi mai messa in discussione, e come ogni cosa che sembra ovvia non ci si dà quasi mai il disturbo di capire quali fattori, culturali e politici, l’abbiano partorita. Morozov invece lo fa, e ne rintraccia l’origine in una scimmiottatura delle politiche della Guerra Fredda, quando, secondo la vulgata, bastarono le fotocopiatrici e le radio finanziate da Reagan per fare crollare il comunismo. O fu il veccho Woytila a farlo crollare? Cambiano gli idoli tirati in ballo di volta in volta, ma guarda caso non si analizzano mai le condizioni strutturali che hanno portato al crollo sovietico.
Questo lascito della guerra fredda, la difficoltà a staccarsene, sta causando anche un altro blocco mentale, più grande e meno visibile, secondo me. Dopo il crollo del comunismo tutte le democrazie occidentali hanno dichiarato vittoria e si sono sedute, rinunciando a fare quello che avevano fatto, più o meno bene, fino a quel momento. Dalla fine degli anni novanta, in pratica, non si parla più di diffondere la democrazia. E quando se n’è parlato, lo si è fatto in modi, tempi e linguaggi che di democratico non avevano nulla. L’aria generale che tira insomma è di rinuncia al proprio ruolo, di arretramento di fronte alle uniche regole del capitalismo – che, come si sa, HA VINTO, e dunque non può più essere messo in discussione.
“Proprio ruolo” ovviamente non significa quel pastrocchio simil-fascista dei primi anni 2000, quando in nome del ruolo civilizzatore dell’uomo bianco si bombardava la gente. Questa cosa succede ancora, ma non possiamo permetterlo, le occupazioni militari a fini di sfruttamento dovrebbero essere chiamate con il loro nome, non democrazia.
Siamo di fronte a un corto circuito su cui bisognerebbe riflettere con molta attenzione. La vittoria del capitalismo ha dato mano libera alla speculazione, che ha travolto la stessa democrazia smantellandone le poche garanzie accumulate in decenni. Molto spesso sono gli stati autoritari ad andare bene al capitale. Ma i democratici, chi avrebbe dovuto resistere a tutto questo, sembrano essere stanchi, come se assistere al trionfo di questo post-tototalitarismo fosse inevitabile. In altri casi, altrettanto tristi, si è provato a fare resistenza, ma con gli stessi linguaggi vecchi di quarant’anni fa, facilissimi da disinnescare.
Le nostre società, e le nostre psicologie, sembrano meno libere oggi di quanto non lo fossero all’inizio degli anni ottanta. Ci siamo tutti arresi a subire le ingiustizie e tenere la testa bassa? Dovremmo attivare processi generali che ci conducano ad avere più libertà, e non meno, come sta accadendo oggi. Una riflessione sul ruolo e sui modi della democrazia nelle nostre vite si impone, così come ancora, secondo me, non è stato studiato a dovere il nuovo totalitarismo dalla faccia scema e dai modi brutali che ci troviamo di fronte. La domanda a cui si dovrebbe rispondere è, soprattutto: come si è arrivati a trasformare semplici gesti che compiamo nella vita di tutti i giorni in meccanismi di sorveglianza e controllo?
Leggo: ancora Evgeny Morozov, l’Ingenuità della Rete.