Mike Vallely è uno skater che fa un sacco di altre cose: canta e scrive e dirige compagnie di skate. Non si fa tanti problemi sui ruoli che indossa, cerca di vedere un mondo migliore e di sbattersi per ottenerlo. Molto difficilmente lo si troverà a lamentarsi delle cose che non vanno. A modo suo è stato una porta d’accesso a un mondo che difficilmente sarebbe potuto arrivare a un ragazzino della provincia italiana degli anni novanta. Adesso, venti anni dopo, gli sento dire cose di grande importanza e gli vedo fare le stesse cose che piacerebbe fare a me. Non nel senso che vorrei andare in skate e rompermi il naso facendo hockey. Ma Mike V mischia, comunica, scrive poesia, fa skate, va in giro a ispirare i bambini, canta in gruppi punk, fa podcast, fa partire compagnie di skate. È questa intensità, questa temperatura, questo mettere sé stessi nelle cose che si fanno senza compromessi che mi fa pensare parecchio. C’è bisogno di gente come lui, in giro. Provo a spiegare perché.
Il nome di Mike Vallely mi è capitato a tiro in qualche punto agli inizi degli anni novanta. Ero un piccolo dodicenne della provincia più a sud d’italia e cercavo qualcosa che mi piacesse non perché me lo avessero passato i miei genitori, ma perché piaceva a me. Lo skate mi era sembrata da subito un’ottima idea. C’era movimento, c’era la possibilità di fare uno sport divertente, c’erano dei miei amici che già lo facevano. Soprattutto era un passatempo che mi spingeva a stare fuori di casa, mi dava la possibilità di girare per strada in modo diverso dal salire sull’auto di mio padre. Un modo nuovo di scoprire una piccola città, il più basilare: a piedi, con una tavola, sudando e sfrecciando tra i passanti, muovendo il fisico invece che guardando da un finestrino o seguendo percorsi e luoghi obbligati.
Dopo avere comprato una tavola da quattro soldi, una Jacobson in offerta da Treesse a quarantamila lire, ci misi su un paio di ruote enormi e iniziai a darmi da fare per imparare a saltare – a ollare. Poi, dato che fin da piccolo sono stato un secchione con la fissa per l’analisi e per la conoscenza di quello che sto facendo, mi misi a cercare riviste di skate nella speranza di trovare qualche dritta. In realtà è chiaro che stavo cercando un’appartenenza, volevo appropriarmi dei codici della mia nuova tribù. Ma, sorpresa sorpresa, iniziando a leggere quei giornali scoprii che il sud italia non era un luogo in cui la gente faceva davvero skate: noi dovevamo arrangiarci con qualche panchina e la piazza centrale del paese, in cui la gente ancora nemmeno ci guardava disgustata perché non aveva la più pallida idea di chi fossimo o cosa stessimo facendo, mentre al nord si andava nello skatepark, avevano rampe quasi verticali e aggeggi in legno e posti al chiuso, una cosa inconcepibile. Inconcepibile ancora oggi, tra l’altro. Il mio ultimo contatto con la scena skate, a Palermo, si è svolto nella piazza di fronte a Teatro Politeama e sui gradini di fronte a una banca, con i passanti che si incazzavano quando provavo a fermarli perché c’era uno skater lanciato e se avessero continuato a camminare si sarebbero presi una tavolata in testa.
In quelle riviste iniziai a scoprire un mondo. Alcune cose oggi fanno sorridere, come la rivista Skate, la più diffusa nella mia zona, che in seguito scoprii essere diretta dallo stesso tizio che dirigeva Il Paninaro, e infatti fu proprio su Skate che per la prima volta sentii parlare di grunge scambiandolo per un fenomeno di vestiario, dato che si parlava solo di jeans usati e camicie di flanella e non di musica. Poi c’era XXX Skateboard Magazine, altro livello, paginate su paginate di trick e foto e reportage dai contest, il periodo era quello dei flip dappertutto, anche sul cesso ci si metteva a fare Ollie flip frontside shove it 180 to tailflip to nose varial to flip to flip to FLIP, era una cosa che doveva stare dappertutto, poi scoprirono il noseslide e allora ogni trick si doveva chiudere o aprire con il noseslide o il tailslide, poi qualcuno ebbe un’idea e AH! Flip e noseslide insieme! Cosa può esserci di meglio? Si iniziava appena a usare i truck per grindare, ma non mi è mai piaciuto, consumava i venture nuovi e il marmo del parchetto in cui andavamo a skateare non reggeva bene l’impatto di me + la jacobson che pesava più di me, e dovevamo tenerci buoni i guardiani se no non potevamo più entrare.
(Ho trovato un archivio on line delle vecchie copertine di XXX, se c’è qualcuno a cui piace l’archeologia.)
Trick a parte, in quelle riviste si parlava anche di musica. Mi pare fosse proprio su XXX la cronaca del primo concerto punk in assoluto di cui io abbia mai sentito parlare, i NoFx con i Lag Wagon in qualche capannone sperduto in nord italia. Pensavo che i punk fossero roba con jeans stretti chiodo e cresta, dei teppisti, invece me li ritrovavo vestiti come skaters – come me – sulla mia rivista preferita, che tra l’altro metteva come didascalia a una foto de leg uegon singher chen giàmp rilli aigh, un capolavoro assoluto, un contatto con l’HC prima ancora di leggere una qualsiasi rivista musicale.
Insomma, intorno allo skate si coagulava già allora un movimento culturale, di cui Mike Vallely era parte integrante e protagonista. Io da piccolo dodicenne leggevo, andavo in skate e assorbivo, e capivo che il punk era cosa buona prima ancora di averne ascoltato un pò o di avere visto una foto di un punk. Perché? Per via di Mike V e del suo poster e di come ogni tanto prendono una certa piega le cose. “Skate” aveva sempre, nel paginone centrale, dei poster grandi quanto un foglio A4, e uno di questi era una foto di Mike Vallely che saltava una panchina. Uno scatto frontale di un semplice salto, niente di eccezionale. Vallely era serio, la faccia mezza coperta da un cappello con visiera, eppure i segni particolari erano visibili, il muso duro, le scarpe da skate, il braccio steso che mostrava il tatuaggio sul gomito. Non so perché, ma quella foto mi piacque un sacco e la appesi, e dato che mi piaceva così tanto decisi di informarmi di più su chi era quel Vallely, scoprendo che era uno dei due grandi dello skate di allora.
Ok, di grandi ce n’erano un sacco, incluso un certo Tony Hawk, ma allora il vert non andava di moda, si faceva street e i due più in voga erano Vallely e Ed Templeton, che adesso è ancora in circolazione ma non ha più messo piede su uno skate e preferisce fare il (grande) fotografo. Se Templeton, però, era lo skate come lo volevano fare i dodicenni e le case produttrici, che aveva un atteggiamento un pò strano però rilasciava interviste ed era disponibile e insomma skateava e basta, Vallely aveva già allora la fama da duro, era descritto come un attaccabrighe che non aspettava altro che una scusa per menare le mani. Ma il peccato capitale di Vallely era di essere uno skater che non pensava solo e unicamente allo skate. Era un cantante di musica hardcore, gli interessavano altre cose, e questa cosa era vista molto male, se ne parlava con una certa impazienza.
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Me ne rendo conto solo adesso, ma allora già mi arrivava questa divisione tra il lato commerciale dello skateboarding, che per me era rappresentato da Templeton, e quello DIY, più lato Vallely. Naturale che io tifassi Templeton, volevo solo andare in skate e avere un’identità da skater, e per di più avevo dodici anni, quindi non sentivo nessuna necessità di sporcare lo skate con cose da grandi come rabbia, pugni, identità.
(inciso per lo storico dello skate di passaggio. Non so se davvero Templeton rappresentasse l’anima commerciale dello skate. In realtà anche lui ha fondato il suo brand e lo mantiene dal 1994, facendo tutte le grafiche e la direzione artistica, e senza fare troppo chiasso anche lui ha sempre avuto un’attitudine DIY. Ma sto parlando di come vivevo questa cosa allora, non di come fosse in realtà).
E però. A me Vallely piaceva, aveva energia, skateava a meraviglia in ambienti urbani e aveva questa attitudine punk, combatteva per il suo diritto di fare skate dove gli pareva e di non avere interruzioni a cazzo se non stava facendo del male a nessuno, atteggiamento che sarebbe poi stato riassunto alla perfezione nel video CKY in cui si mette a fare a botte e a litigare con un sacco di gente. Soprattutto Mike V sembrava tutto quello che nella piccola provincia siciliana non arrivava ed era vietato fare arrivare agli occhi di un dodicenne. Skate, punk, stare per strada, mettere in discussione l’autorità, era sempre rasato e somigliava a uno skinhead e dunque era ovviamente un fascista, roba che a ripensarci oggi mi fa sghignazzare, ma allora dovevo fare molta attenzione a cosa decidevo di mostrare ai miei genitori.
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Ora, le cose vanno sempre molto veloci, e a noi piace pensare che siano lineari e che da un punto A si finisca al punto B e ci sia un motivo per cui avviene, un motivo che è possibile spiegare. Ma non sempre è così. A volte salire su uno skate ti fa assaggiare, in modo intuitivo e preverbale (perdonami mamma se ho usato tutta la mia cultura per mettere in uno stupido blog un termine come preverbale) tutto un mondo di significati e contestazioni. Grazie a Vallely e al suo modo di skateare ho scoperto che punk e hardcore non erano necessariamente roba da delinquenti, e quando un annetto dopo incappai in Henry Rollins per me fu chiaro che apparteneva al mio mondo e iniziai ad ascoltarlo (su Rollins mi fermo qui, perché Bastonate ha detto alla perfezione tutto quello che c’è da dire su cosa abbia rappresentato il buon Henry). C’era tutto un mondo al di fuori della mia piccola cittadina, e bastava andare in skate per scoprirlo.
C’è stato un momento in cui poi Mike V l’ho perso di vista perché ho iniziato ad occuparmi di altro, suonare la chitarra e fare il piccolo punk di provincia degli anni novanta e leggere Marx senza capirci un cazzo. Lo skate era diventato roba da bimbi. Ma questo è quello che mi raccontavo io, in realtà lo skate mi era rimasto sottopelle e pur non andandoci continuava a interessarmi, e quando Tony Hawk riuscì per la prima volta a chiudere il 900 rimasi un sacco di tempo a guardare e riguardare il video, e c’è stato un momento verso i primi anni 2000 in cui in effetti mi vestivo come Tony Hawk, con i pantalonazzi corti e le magliette colorate e le scarpazze da skate, complice anche l’atmosfera no global che ti faceva sentire figo ad andare in giro conciato in quel modo. Chiaro che mi arrivassero anche notizie su Mike Vallely, sul suo mettere insieme ottomiliardi di compagnie e chiuderle un attimo dopo e continuare a fare skate e un sacco di altre cose, fare wrestling e cantare con un gruppo e fare a botte durante la sua prima partita professionistica di hockey e ricavarne un braccio rotto e bontà sua mettersi a cantare con i Black Flag, un corto circuito niente male ora che ci penso, e nulla di tutto questo mi stupisce perché ho sempre saputo che Mike Vallely è uno che vive in quell’ambiente mentale in cui si fanno le cose senza aspettare che ci sia qualcuno, un governo o una grossa casa produttrice, a dirti come farle e quando farle e farle senza offendere il pubblico.
In effetti questa è la cosa che mi è mancata di più, fin dai primi tempi in cui skateavo. In Sicilia l’autoproduzione è sinonimo di sì, va beh. A suo tempo aspettavamo che qualcuno ci costruisse uno skatepark, e quando questo non successe e dei miei amici costruirono una piccola rampa in una casa abbandonata, la trovammo distrutta dopo un paio di sere e un tizio in contatto con la polizia ci fece sapere che era meglio andare a giocare in un altro modo perché c’erano state lamentele e potevamo passare qualche guaio con i tutori della legge – e naturalmente anche oggi ci sarebbe chi dà ragione al Rappresentante di Sto Cazzo, perché le regole e il rispetto e signora mia. Ma certo. Meglio per strada a drogarci. Se guardo alla pagina wiki sulla scena punk italiana ci sono sottosezioni per le scene di qualsiasi regione, tranne che per la Sicilia, dove evidentemente il decoro la fa da padrone, il DIY non ha fatto molta presa e quel genere di rabbia la reprimiamo a man bassa perché come si sa noi abbiamo il sole e il mare ed è il paese migliore del mondo e dire che le cose vanno male è fare il gioco dei polentoni che ci vogliono tanto male. Chiusa parentesi.
Avanti veloce, un paio di anni fa. Mi metto a fare arti marziali, e sempre perché mi piace leggere di quello che faccio incappo in un libro, Per un cuore da Guerriero di Daniele Bolelli. Mi metto ad ascoltare il podcast di Bolelli, e chi è ospite di una delle prime puntate? Mike Vallely. Che adesso ha anche un podcast tutto suo, il Mike V Show, in cui parla di, beh, delle cose importanti di cui bisogna parlare oggi, di mettere un sacco di intensità nelle cose che si fanno, di non chiudersi in un recinto ma di sperimentare con le cose e di farne un sacco e di farle bene e di togliere qualsiasi uomo nel mezzo, qualsiasi filtro, persona o istituzione che magicamente dovrebbe arrivare a risolvere i nostri problemi e metterci nelle condizioni di fare le cose. Stronzate.
Ancora oggi Mike V ha quella attitudine DIY – con qualche soldo in più, sospetto – proprio per i motivi che ho appena detto: non gli va di avere tra i piedi un’industria che gli dice cosa fare, come deve skateare, come andrebbe vissuto lo skate, come andrebbe commercializzato, e non gli va a un livello tale che si permette, pur essendo uno skater professionista tra i più grandi al mondo, di non essere uno skater professionista tutto il tempo. Proprio il suo essere staccato da certe logiche gli permette di essere un cantante e un giocatore di hockey e così via e di spendere sé stesso al massimo, senza sentirsi di tradire nessuno se fa quello che gli pare.
Penso ci sia tanto bisogno di persone come Mike V, a questo mondo. Perché l’alternativa fa schifo. Vallely vive con intensità, ha una sua visione e non si fa gettare per terra dagli inevitabili fallimenti. L’alternativa sono gli individui pigri e squallidi che si vedono in giro, le persone che si sono spente per diventare membri rispettabili della società, che hanno rinunciato a qualsiasi sogno e a qualsiasi visione di una vita migliore per accontentarsi e vivere all’interno della linea di sicurezza, che soccombono alle paure e si trincerano dietro identità e cose per andare avanti. Mike V è l’antidoto – uno degli antidoti, naturalmente – a tutto questo, all’accontentarsi e all’appartenere. Il problema nasce quando si vuole che lo skate – o il mondo, per quello che riguarda – sia tutto così, sia solo così, senza spazio per chi vuole fare dell’altro. Mike Valley invece fa skate come dovremmo vivere tutti. Con intensità ed energia, e cercando di essere un individuo.