Se la bontà di una strategia si vede dagli effetti più che dalle intenzioni, in questo momento la Russia sta conducendo in medioriente una partita più efficace di quello occidentale. Nei vari movimenti di truppe russe in Siria di questi giorni si possono vedere le avvisaglie di un nuovo assetto del Medioriente.

Gli Stati Uniti hanno svelato, ieri, che genieri russi sono al lavoro per costruire una grande base militare a sud di Latakia, in Siria, l’ennesimo tassello di un avanzamento tanto discreto quanto profondo nel territorio del regime di Bashar al Assad. Poco dopo Putin ha confermato l’impegno russo nella zona. Da mesi si parla della presenza degli osservatori e degli ufficiali militari di Mosca sulla sponda siriana del mediterraneo, a cui ha fatto seguito la costituzione di un ponte aereo con cui i russi avrebbero portato in Siria attrezzature militari e logistiche nell’ambito della collaborazione decennale con Assad.

A segnare una svolta nella complicata posizione russa nel conflitto siriano sarebbe stata proprio la scoperta che ci sarebbero truppe militari, carri armati, aerei e torri di controllo in territorio siriano, un ampliamento rispetto alla presenza di semplici osservatori che farebbe presupporre un ruolo più attivo dei russi nella guerra civile ormai in corso da quattro anni. Non è ancora un’escalation, ma non è una mossa di pace.

Oltre all’impegno sul terreno tattico c’è anche un maggiore impegno diplomatico e politico. Sergej Lavrov, ministro degli esteri russo, ha spesso avanzato proposte di negoziazione per fare cessare le ostilità, aumentando anche in questo caso il peso della Russia nella vicenda siriana. Tutte le proposte prevedono il coinvolgimento del rappresentante del vecchio regime, Bashar al Assad, in qualsiasi trattativa di pace per stabilizzare la Siria e sconfiggere l’avanzata della lo Stato islamico.

A mettere in crisi i governi occidentali è soprattutto l’ambiguità della politica russa. Da un lato Putin cerca di mostrare alle opinioni pubbliche una facciata moderata, proponendosi come mediatore. La Russia ha già assunto, nel 2012, il ruolo di pompiere della polveriera mediorientale, fermando l’avanzata bellica degli Stati Uniti che ritenevano inevitabile un intervento per l’uso di armi chimiche da parte del regime siriano. L’immagine di statista affidabile continua a essere la maggiore garanzia di autorevolezza di Putin. Al tempo stesso la Russia si sta posizionando militarmente in Siria, in modo da sostenere il proprio alleato ed avere uomini e mezzi già pronti sul terreno nel momento in cui i titubanti governi occidentali dovessero decidere un intervento sul terreno. In quel momento, infatti, la Russia avrebbe dei soldati già pronti, e sarebbe molto difficile chiedere a Putin di farsi da parte. Come già in Crimea la Russia sta portando avanti una politica del doppio binario, puntando a mettere la comunità internazionale di fronte a un fatto compiuto.

L’obiettivo di Mosca è giungere a una Siria pacificata e in cui l’assetto geopolitico della zona sia ancora garantito dal suo storico alleato Assad, che in questo modo continuerebbe a garantire l’unica base sul mar Mediterraneo di cui disponga la flotta russa. Non a caso negli ultimi tempi si è parlato di ingrandire la piccola base di Tartus. A questo si sommerebbe un coinvolgimento nella crisi siriana di soggetti che metterebbero in posizione di svantaggio gli Stati Uniti d’America, come l’Iran, Hezbollah, lo stesso Assad. L’obiettivo finale in altre parole sarebbe ridisegnare il Medioriente secondo le esigenze russe, mettendo in discussione gli interessi economici e politici degli Stati Uniti in quella zona.

La risposta occidentale, e in particolare statunitense, è confusa. L’Occidente è stato colto di sorpresa al sorgere della crisi dello Stato islamico, di fatto una creatura dell’invasione statunitense dell’Iraq. Quando l’ISIS prese Mosul alcuni diplomatici americani dissero che gli uomini di al Baghdadi non erano una minaccia seria e che bisognava occuparsi dei veri terroristi, quelli di al Qaeda. L’avanzata dello Stato islamico diventò in fretta troppo grande per essere trascurata o nascosta, e i governi occidentali, privi di una qualsiasi politica e costretti a subire l’iniziativa, iniziarono a spedire dei bombardamenti aerei sulla zona, mettendo in chiaro da subito che la disponibilità occidentale a risolvere il problema dello Stato islamico si fermava di fronte alla possibilità di un intervento concreto. L’occidente, in altre parole, non faceva altro che un intervento di rappresentanza.

Il desiderio neanche tanto nascosto era che ci pensassero altri a risolvere il problema. Intorno all’estate del 2014 si fece un gran parlare dei Peshmerga curdi, descritti come la sola speranza occidentale per arginare l’avanzata dell’ISIS. I curdi venivano usati come fanteria da parte delle cancellerie occidentali, o almeno questo era il disegno, del tutto perfetto fino a che non si è dovuto fare i conti con la realtà: i curdi sono sempre stati i nemici principali del governo turco, che in quella zona è il maggior alleato strategico dell’Occidente e che per mesi ha impedito di usare le sue basi alla Nato, consentendo invece ai militanti dello Stato islamico di passare attraverso il confine con la Siria sia per lottare contro il regime di Assad che per attaccare le postazioni curde. Nessun governo occidentale ha mai accennato a niente di tutto questo, se non per evocare la possibilità di ulteriori bombardamenti cosmetici.

Dunque siamo di fronte a a un Occidente senza nessuna strategia. A mancare è, soprattutto, il disegno politico. Se ci fosse sarebbe più facile invocare un intervento militare, cercando quantomeno di fermare l’avanzata dello Stato Islamico e il consolidamento al potere di Bassar al Assad. Ma proprio questo è un altro dei problemi: c’è talmente tanta confusione che non si sa bene cosa si vuole, chi si dovrebbe mettere al posto del governo della nuova Siria, in che modo si dovrebbe consolidare il suo potere. L’Occidente vorrebbe la Russia fuori dalla Siria e dal Mediterraneo, tenere fuori Assad dal potere e al tempo stesso sconfiggere gli islamisti. Un po’ troppo, e troppo contraddittorio, per il tipo di forze che ci sono sul campo. Allo stato attuale, gli Stati Uniti e i governi europei sono davanti alla scelta tra lottare contro il jihadismo, appoggiando involontariamente Assad, o lottare contro quest’ultimo, appoggiando involontariamente il jihadismo. Una contraddizione che in passato ha già portato alla crescita incontrollata del potere dei militanti islamici, e ad altre scelte miopi come rifiutare offerte di un negoziato con Assad.

Dall’altro lato, la strategia della Russia è molto chiara. Giocando sulla politica a doppio binario Putin vuole accreditarsi come l’unico e il più grande mediatore per la pace della Siria, cercando di darsi un’immagine di nemico dei terroristi. Disponendo di uomini sul campo che lottano contro lo Stato islamico e del peso politico guadagnato negli ultimi anni in medio oriente, il governo russo cercherà di fare sedere il governo di Bassar al Assad a un tavolo delle trattative per la pace e di accreditarlo come alleato nella lotta al terrorismo. In uno scenario di lungo periodo, la Russia manterrà la sua posizione nel Mediterraneo e disegnerà un riequilibrio strategico del Medioriente in cui a pesare non saranno più gli interessi degli Stati Uniti ma la Russia e e i suoi alleati.

Quello su cui i governi occidentali dovrebbero concentrarsi dunque è l’elaborazione di una politica chiara di intervento in Siria e l’individuazione dei mezzi più adatti a riuscirci. Non c’è più il tempo di cercare soluzioni che sulla carta potrebbero accontentare tutti. Bisogna lasciarsi alle spalle le paure del decennio scorso e, banalmente, fare ciò che è giusto, perché nel momento in cui l’unico linguaggio che si parla è quello militare non si può sperare di convincere gli altri con le buone maniere. Esistono forze che devono essere fermate, e occorre una forza di interposizione. Non a scopi offensivi, ma per permettere ai siriani di scegliersi l’assetto di potere che ritengono più opportuno, e di consolidare quell’assetto.

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