
Ho scritto una cosa che è un po’ un’introduzione, un po’ una raccolta di appunti su Jordan Peterson, psicologo canadese conservatore e spauracchio professionista del politicamente corretto. In questo post parlo di come sono arrivato a Peterson, una storia personale, e faccio una panoramica delle sue idee. In un altro post parlerò delle polemiche di Peterson scatena su argomenti come il politicamente corretto, il femminismo, il progressismo, utilizzando soprattutto Youtube, i podcast e i blog per divulgare il suo lavoro. Sarà una cosa lunga, siete avvertiti.
Disclaimer: il lavoro di Jordan Peterson attira soprattutto maschi bianchi eterosessuali, pur non essendo pensato e creato per loro. C’è un motivo per questo, e per spiegarlo faccio ricorso anche alla mia esperienza personale. Questo per dire che non ho scritto un saggio obiettivo su Peterson, né ho mai voluto scriverlo. Per alcuni Peterson è un intellettuale offensivo, e lo dicono come se fosse un difetto. A me piace ricordare quello che diceva Christopher Hitchens, uno che per tanti versi era all’opposto di Peterson ma che sosteneva che l’offesa, il sentimento dell’offesa, non costituisce un argomento in una discussione razionale, e quindi può essere lasciata andare senza troppe domande. Penso anch’io che per pensare bene bisogna correre il rischio di offendere un bel po’ di gente, e questo può capitare con le persone e le tribù più insospettabili.
Lo sconosciuto
Se si fa una ricerca in lingua italiana su Jordan Peterson salta fuori pochino: una pagina wikipedia, un articolo tradotto da Internazionale un anno fa, qualcosa del Foglio e qualche post su blog. Il suo libro 12 regole per la vita, un antidoto al caos è stato tradotto e pubblicato in italiano a novembre e nessuno se ne è occupato neanche per sbaglio. Strano, per uno che nel mondo in lingua inglese e nel nord Europa ha scatenato una specie di terremoto. Psicologo e conferenziere, il suo ultimo libro ha venduto tre milioni di copie, le sue lecture on line su argomenti come “Uccidere il drago tra di noi” o “Salvare il padre dal ventre della balena” hanno decine di milioni di visualizzazioni e non passa settimana senza che venga tirato in mezzo a qualche polemica.
In Italia, nulla. A volte arriviamo tardi ma pare che in questo caso non arriviamo proprio.
Fuori dallo stivaletto italiano il motivo di tanto rumore intorno a Peterson è la sua lotta contro il politicamente corretto. Non la solita lotta da sessantenne semianalfabeta con troppo tempo a disposizione, che chiama “politicamente corretto” qualsiasi cosa gli impedisca di ruttare i propri pensieri in libertà, ma un approccio critico su cos’è il politicamente corretto e su come sta influenzando la società occidentale. Ancora più importante, Peterson propone un’alternativa al linguaggio ripulito e sotto costante pattugliamento. Che è anche il motivo per cui molti, soprattutto nella sinistra radicale statunitense, lo dipingono come un mostro di estrema destra che non vede l’ora di condannare tutti al lager staccando la testa a morsi a dei poveri gattini, mentre a destra, dove si raccolgono molti dei suoi estimatori più fastidiosi e molesti, usano i suoi concetti come fossero parole d’ordine senza mostrare di averli capiti davvero. La confusione intorno a Peterson è tanta, perché è molto contestato ma poco letto.

Quando l’auto aiuto ti danneggia
Nel mio caso, mi sono avvicinato a Peterson alla fine di un periodo di confusione. Non è la classica storia Mio Dio Peterson mi ha salvato, perché non c’era niente che non andasse davvero. Parlo di un’onda lunga, una temperatura a cui ero vissuto per parecchi anni, a cominciare da quando sono uscito dall’università e sono finito nel grande mondo. Mi trasferii a Milano e mi trovai ad avere a che fare con il lavoro, con persone che non avevano i miei stessi interessi, con la necessità di infilarmi in uno dei milioni di percorsi in cui la città ti risucchia e di trovarci un senso.
Riuscirci era una sfida, e a me non riuscì subito. Per mesi mi sentii senza nessuno scopo, non vedevo l’ora di cambiare e di entrare in sintonia con tutto quello che mi circondava.
Immagino che la storia del cambiamento di tante persone inizi così. Vengono buttate in un mondo che non conoscono e all’improvviso si rendono conto dell’esistenza di problemi che fino a un momento prima non vedevano. Credevo di avere tutto spianato davanti e un attimo dopo non sapevo niente e dovevo capire chi ero, cosa facevo e cosa volevo fare. Così iniziai a sperimentare. Facevo il fotografo, vestivo in modo molto indeciso e nel frattempo leggevo di tutto e prendevo appunti.
Tra saggi e romanzi iniziai a leggere anche un sacco di libri di auto aiuto, quelli che ti promettono che alla fine sarai una persona nuova e avrai iniziato la tua vita vera, quella che ti aspetta dall’altra parte dello specchio. In pochi anni ho divorato tutti i capisaldi del genere, le Sette regole per avere successo di Stephen Covey, 4 ore alla settimana di Tim Ferris, i Sette pilastri dell’autostima, la via dell’Artista, un sacco di roba sul Getting things done, sulla programmazione, sul preparare routine che mi rendessero più produttivo durante la giornata. Con il tempo iniziai anche a cercare i blog che parlavano di miglioramento personale. Era commovente e bellissimo sapere che lì, da qualche parte, c’era la chiave per una vita migliore, ed era frustrante vedersela sfuggire dopo qualche giorno. Ritenta, sarai più fortunato.
Tutto questo lavoro di studio, lettura e automiglioramento lo facevo di nascosto. Mi vergognavo di dover ricorrere a quei libri per sapere delle cose che, credevo, avrei già dovuto sapere, o che comunque sarebbero state disapprovate dai miei genitori e da chi mi stava vicino. Loro infatti sapevano bene qual era il modo migliore di vivere. Chiunque sapeva come si dovesse vivere, molto più di me. Credo mi vergognassi di quello che facevo, e allora sfottevo gli altri quando altre persone facevano le stesse cose e leggevano gli stessi libri. Mi faceva ridere soprattutto la debolezza che mostravano aderendo al movimento del self help, la mia ironia puntava soprattutto sul fatto che sembravano credere davvero che un’altra vita fosse possibile mettendosi a fare una lista iniziando a praticare uno sport invece che un altro.
Ero un piccolo fiocco di neve: gli altri credevano e per questo cambiavano, a me questo regalo non era arrivato.

E allora vaffanculo
Lo so, è ironico, cercavo di essere me stesso e cercavo le istruzioni su internet. Volevo sentire le cose in modo vero interpretando un personaggio. Stavo diventando una commedia di Pirandello, ma senza la parte letteraria. Questa insicurezza mi ha accompagnato, alti e bassi e momenti in cui c’era e momenti in cui no, per gran parte della mia vita dopo l’università. Anche studiando e approfondendo dei sistemi filosofici mi sembrava che mancasse qualcosa, parlavano solo alla testa. Strano, perché Freddy Nietzsche e i taoisti si concentrano sulle stesse cose che sono al centro delle mie ossessioni: vivere, farlo nel modo migliore possibile, succhiare la vita e viverla sulla pelle, la difficoltà di farlo sempre, la disperazione di non trovare l’energia per essere sé stessi. I taoisti sono troppo criptici, e per quanto io riesca a capire fin troppo bene il concetto di Via, o di sentiero da seguire per la vita, poi le loro indicazioni mi sono sempre sembrate sfuggenti e non riuscivo ad applicarle alla vita quotidiana.
Le cose sono un po’ cambiate l’anno scorso. Prima ho frequentato più del solito la chiesa a causa del mio matrimonio, il corso prematrimoniale e quello per la cresima e le chiacchiere con i preti e la lettura dei testi biblici hanno riacceso una vecchia anima divisa a metà tra la fascinazione per lo studio dei testi e la diffidenza (diciamo anche l’antipatia più nera) per l’interpretazione canonica, mediata dal gruppo e dalla Chiesa. Non esistono persone più inaffidabili dei preti, quando si tratta di leggere e interpretare la Bibbia. Ci sono un sacco di cose da scoprire sotto la superficie dei dogmi e dei DEVI della chiesa e dei parrini, e tutto questo è interessante anche se non sei fedele, nel senso che non hai nessuna fede (anche questo, omaggio che non mi è mai pervenuto).
Nello stesso periodo ho smesso di leggere libri di auto aiuto. Non ne avevo bisogno, non potevano davvero darmi niente. Non voglio essere, pensavo, il genere di persona che ha bisogno di trovare le cose nei libri di auto aiuto. Quindi ho continuato ad andare avanti fino a che questo autunno, non mi ricordo neanche bene come, mi sono imbattuto in Jordan Peterson. Forse ne avevo sentito parlare in qualche podcast, o ne avevo letto in un articolo e avevo preso nota del suo nome. Per qualche motivo, insomma, questo autunno mi sono deciso a leggere il suo libro 12 rules for life, e qualcosa ha fatto click nella mia testa. All’improvviso molte cose che avevo immaginato, che avevo io stesso iniziato a coltivare (una certa insofferenza nei confronti del pensiero di sinistra di cui sono stato imbevuto per tutta la vita; l’idea che sopra ogni cosa debba esserci la responsabilità individuale, invece di puntare tutto sulla tribù come va molto di moda fare negli ultimi tempi), si sono messe insieme per formare un’immagine. Non una conferma, ma un incoraggiamento: la parte profonda, sotto la superficie della vita, quella dove c’è significato, esiste. Non era una mia illusione, e Peterson ha aperto uno squarcio permettendomi di guardarla.
Peterson, allora
Una delle idee centrali che Peterson espone in 12 regole per la vita è che per avere un’esistenza piena una persona deve mettersi nella zona di confine tra il caos e l’ordine. Lui riutilizza l’immagine del Tao, quella del cerchio in cui bianco e nero contengono l’uno un po’ dell’altro, e la spiega così: da una parte ci sono le forze dell’ordine della vita, quelle che strutturano il mondo e lo fanno diventare produttivo, mentre dall’altra parte ci sono le forze del caos, che sono l’unica matrice da cui può emergere una creazione. Entrambe le forze possono essere, e di solito lo sono, distruttive come furie cieche nei confronti delle persone. L’eccesso di ordine porta alla tirannia e allo schiacciamento totale delle caratteristiche dell’individuo, mentre l’eccesso di caos porta alla perdita di controllo e alla distruzione da parte delle stesse forze creative. Riferimento pop per questo concetto, il finale del film Disney Oceania in cui la protagonista sfida un demone distruttivo fatto di lava. Si scopre che la Terra che distrugge e la Terra che dà la vita sono lo stesso identico personaggio. Archetipi, madafaka.

L’immagine principale di Peterson è questa: la maggiore realizzazione di un essere umano, quella in cui viene fuori il suo maggiore potenziale, sta sul bordo tra la zona nera e la zona bianca del simbolo del Tao, quando una persona sta con un piede nell’ordine e uno nel caos. Troppo ordine, troppa struttura, troppa tirannia, e diventi un individuo arido distrutto dalle sue sicurezze. Troppo caos, e finisci in una spirale distruttiva. Il senso delle “dodici regole per la vita” che Peterson espone nel suo libro è questo, sono regole che dovrebbero aiutare a vivere meglio, a trovare un equilibrio tra ordine e caos.
A richiamare me, e tantissimi altri lettori, è però il modo in cui le regole incoraggiano la responsabilità individuale, che è l’altro cardine del discorso di Peterson. Schematizzando: bisogna stare nel punto tra ordine e caos, ma nessuno, nessuno, può mettere un individuo in quella posizione se non sé stesso. Non ci sono stratagemmi, non ci sono scorciatoie, non ci sono biglietti con cui comprarsi una posizione comoda. Quando si sceglie di crescere, di diventare una persona, bisogna accettare alcuni inevitabili corollari, come quello di morire un po’ per poi rinascere.
Era una cosa che diceva Bukowski in una delle sue poesie, bisogna morire un pò di volte per poter vivere. Prendere delle parti di sé stessi e farle morire perché bloccano tutto. Questo per dire che sono idee che si trovano dappertutto, non solo in libri noiosi e pomposi.
Essere?
Adesso un critico serio si chiederebbe, con tutte le arrotazioni linguistiche possibili, che cazzo è l’Essere di cui parla Peterson. È dove si mettono insieme il luogo in cui nasciamo, la nostra classe sociale, il nostro genere, le caratteristiche che per disgrazia o per fortuna abbiamo avuto per nascita, e dove tutto questo si incrocia con la nostra scelta individuale, con la nostra possibilità di fare fiorire, o distruggere, tutto questo. Dove si realizza il nostro massimo potenziale. Ne parla in questi termini anche Nietzsche: bisogna avere il caos dentro per generare una stella danzante.
(Freddy in effetti parlava di Superuomo, ma quello che voleva realizzare era l’individuo, sopra ogni cosa e al di là di ogni cosa. Perché non c’era più bene o male inventato o imposto da altri, non c’era tiranno né genitore permissivo. C’era solo l’individuo messo davanti a sé stesso. Finalmente per Nietzsche potevamo essere liberi, selvaggi, facce toste, energici, pieni di caos e di danza, con gambe talmente lunghe che solo le montagne potevano essere i nostri sentieri, liberi nella solitudine, soli nella libertà. In fondo è quello che succede a tutti, se mai sperimentiamo un briciolo di libertà. Siamo da soli con tutto il nostro carico, leggero e magnifico anche dopo esperienze pesantissime, e siamo esattamente al punto in cui dobbiamo essere).
Individuo, Essere, Superuomo. Potrebbe sembrare qualcosa di molto complicato e lo è. Ma abbiamo a che fare con queste cose tutti i giorni, anche se non ci piace l’idea, e poi è davvero ridicolo che troviamo difficile qualsiasi cosa richieda più di un quarto d’ora del nostro tempo. Quella strana sensazione di non essere inseriti nella propria vita? Le discussioni infinite su cambiare tutto, andarsene, fare qualcosa di più semplice? Il rush di adrenalina dopo aver comprato qualcosa, immaginando cosa ci si potrà fare, e il senso di delusione, qualche giorno dopo, quando si capisce di avere semplicemente comprato della roba, di non avere avuto accesso alla dimensione che si cercava? Tutta questa roba riguarda esattamente le cose di cui parla Peterson, e prima di lui di cui hanno parlato eserciti di filosofi e pensatori.

Senza nascondere la complessità di tutto, Peterson riesce a dare risposte semplici, quasi banali. Il tono dei suoi consigli per vivere meglio lo ha reso il bersaglio degli sfottò di quelli che vorrebbero sempre nascondere tutto dietro una cortina fumogena: “Stai dritto con la schiena”, “Non disturbare i ragazzini che giocano con lo skateboard”, “Paragona te stesso non agli altri, ma al te stesso di ieri”, “Accompagnati ad amici che vogliono il meglio per te”. Quante volte, a livello di conversazione a tarda notte con gli amici, abbiamo pronunciato queste cose, in variazioni diverse, e sbiascicandole tutte, credendo davvero in quello che dicevamo? Era fatta, pensavamo, era tutto così chiaro eppure non riuscivamo a capirlo fino a questo momento, e un attimo dopo invece, con l’aiuto di qualche pinta di Guinness, abbiamo capito che dovremmo essere più tranquilli, lasciarci andare e tirare fuori le palle. Poi, il giorno dopo averli sbiascicati così chiaramente, i pensieri vanno via, se ne tornano nella nuvola da cui eravamo riusciti a farli spegnere. Insieme al mal di testa, alla nausea, alla sete arriva il senso di imbarazzo e la disillusione. Sì, va bene, ci vogliono più palle, ma quelle cose valgono solo quando sei ubriaco. Dopo devi lottare con la vita vera.
Jordan Peterson dice delle cose che in effetti già sai ma non riesci a formulare e che non ti concedi mai di pensare sul serio, e costruisce ogni capitolo in modo da dare sostanza alle sue regole. Non si limita a esporre. Ogni capitolo è una lunga digressione sul modo che altri esseri umani hanno usato in passato per vedersela con gli stessi problemi che affrontiamo noi oggi, e che crediamo di avere risolto o di non dovere più affrontare perché viviamo in un mondo fatto di cellulari. Povere scimmie presuntuose che non siamo altro. Così, nel caso della regola “Abbi cura di te stesso come qualcuno che si affida a te”, Peterson fa una lunga digressione sul libro della Genesi, sulla condizione di Adamo ed Eva e su come quel racconto sia in realtà quello di una persona che diventa cosciente di sé e della propria debolezza. In un altro capitolo, “Metti in ordine la tua stanza prima di criticare il mondo”, Peterson pesca a piene mani dall’esperienza di Solzenitsyn, che scrisse “Arcipelago Gulag” e che, trovandosi chiuso in un lager sovietico, iniziò a ragionare non su cosa gli altri gli avessero fatto di male per condurlo in quella condizione, ma su cosa lui stesso avesse fatto per arrivarci. Non guardava agli altri. Cercava le proprie responsabilità nella propria vita. Ecco di nuovo la parola chiave: responsabilità.
Suona pesante, e in effetti lo è. Bisogna dire che Peterson usa le scritture, ma mai in senso religioso o dottrinario. Da bravo psicologo junghiano, è interessato più ai simboli delle storie religiose. Le prende più come storie su come ci si debba comportare in certe situazioni e su quali potrebbero essere le conseguenze di certe azioni, che come racconti su fatti storici veri. Volendo dire una parolaccia, le usa come storie morali: ciò che si può e non si può fare, ciò che sarebbe meglio fare, ciò che non andrebbe fatto male.
E con questo, fine prima puntata. La seconda, se avete resistito, sarà sulle polemiche di Peterson e sulla guerra in corso con il politicamente corretto.