
L’anniversario della strage di Capaci è un evento speciale, in Sicilia. Ma la verità è che le celebrazioni dicono molto più sul movimento antimafia che sulla lotta alla mafia. Accorgersi che sono diventate un’occasione di retorica del potere va bene, ma forse è un po’ troppo tardi.
Oggi è l’anniversario della morte di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli uomini della loro scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Già il fatto che ci siano delle cerimonie, ventisette anni dopo la strage di Capaci, mi sembra parecchio strano, come se avessimo voluto cristallizzare in un giorno il ricordo di una persona, del suo sacrificio e del terribile periodo in cui siamo passati. È giusto e doveroso, da parte dello Stato e dei cittadini, ricordare chi è caduto per il bene comune, ma è facile notare che le commemorazioni per Capaci sono diverse dalle altre che scandiscono il calendario italiano: più partecipate, più grandi, con un profluvio di parole che cresce invece di diminuire. Le Falconeidi, come le chiamano a Palermo, si stanno trasformando in un rituale, e come ogni rituale richiamano un singolo gesto giorno dopo giorno, anno dopo anno, e il prezzo inevitabile è che lo allontanano da ciò che quel gesto ha significato in primo luogo.
I segnali si vedevano già da tempo: svuotamento retorico, scenate auto-congratulatorie, moralismo con la bacchetta in mano per indicare chi sono i buoni e chi i cattivi. In questo, una cattivissima impressione ha sempre fatto la cosiddetta antimafia, sempre pronta a mostrare di essere pura e dura senza mai chiarire bene da dove prendesse questa purezza, né dove volesse condurla.
Falcone e Borsellino come santi laici, in altre parole. Persone che hanno sempre avuto ragione per definizione, e di cui non si può più valutare criticamente l’operato, in modo illuminista, con la semplice ragione, considerando le infinite cose buone e il sacrificio che hanno fatto ma anche le cose meno buone. Che non conosco, e partirei proprio da questo, la considerazione del fatto che Falcone e Borsellino avranno fatto nella loro vita anche cose meno buone, il tenere in considerazione questa semplice idea, dovrebbe essere nella normalità delle cose per persone o studiosi che volessero parlare dell’operato di uomini. Ma non è così nella terra dei Santi e dei navigatori, dove già solo l’idea che Falcone potesse avere dei difetti, delle zone d’ombra, delle carenze, suona come una bestemmia, e nessuno mai la dirà a voce alta.

Quest’anno la santificazione si è arricchita di nuovi atteggiamenti, tutti rivelatori della stessa mentalità. Il presidente della Commissione antimafia Claudio Fava non vuole mischiarsi al ministro degli interni, e come lui anche il presidente della Regione Nello Musumeci e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Chiaramente tutti per motivi politici e questioni di principio, non fare passerelle, non partecipare alla santificazione retorica insieme a uno come Salvini che nella retorica ci sguazza. Ci arriviamo con decenni di ritardo ma ci arriviamo, al fatto che la retorica è la cosa che fa più danno alla lotta alla mafia, soprattutto quando prende la forma di una santificazione. Voluta, costruita, perseguita, osannata, pattugliata, vigilata e sanzionata dagli stessi a cui oggi proprio non va giù la retorica sull’antimafia, potenziata dal ministro degli interni che divide, e decidono di non partecipare mentre appena un anno fa (come passa in fretta un anno) ci si affollava tutti dentro l’aula bunker per la diretta televisiva.
Che l’antimafia avesse nel sangue certe derive, diciamo così, da cacciatori di eretici, era ben chiaro almeno da trent’anni. Gli ultimi dieci hanno solo peggiorato lo spettacolo con la divisione del movimento in vari fronti litigiosi, ciascuno addetto a pattugliare un pezzo particolare di memoria e a difenderlo non solo dalle grinfie di chi vorrebbe fare tornare la questione mafia nell’oblio, ma soprattutto da quelle di altri pezzi di antimafia, colpevoli di non essere abbastanza anti, o forse di esserlo in modo compromesso, o forse peggio ancora di non tenere alta la guardia dell’intransigenza e della legalità. Il risultato è che ci sono tanti pezzi di antimafia, tutti convinti di rappresentare la vera antimafia di fronte al compromesso e al cedimento degli altri.
L’accusa di essere dei mafiosi è sempre dietro l’angolo, e come in certi processi fatti nell’est Europa negli anni trenta l’unica certezza è che non si può mai essere certi, né di avere le carte in regola né che la propria storia, le proprie credenziali, basteranno a salvare dall’accusa di aiuto oggettivo alla mafia. Anzi: alle mafie, un soggetto sempre più multiforme e indefinito che copre di tutto. Basta un cedimento, una considerazione su quanto può essere dannosa la religione della legalità, un ragionamento un po’ più complesso su come certi fenomeni, come la corruzione o l’abuso d’ufficio o le tangenti non siano di per sé fenomeni mafiosi, per essere accusati di aiutare la mafia, o, accusa ancora più grave nel mondo antimafioso, di non volerla lottare abbastanza. Per cui, tutto ciò che è meno che fanaticamente legalitario diventa, per sillogismo, mafia. Se esprimi dubbi sul fatto che ci sia stata una trattativa tra Stato e mafia, o che questa trattativa abbia portato a qualcosa, sei un colluso. Stessa cosa se esprimi dubbi sulla natura e sulle spiegazioni da dare ai vari coni d’ombra seguiti alle stragi: il covo di Riina, la strage di Via D’Amelio e come fu concepita. Se sei un tangentaro, se hai aiutato qualcuno a prendersi un posto di lavoro, se presenti un amico a un altro che forse può dargli un lavoro, sei un mafioso o comunque stai aiutando le mafie, plurali, questa grande galassia che va da Corleone e arriva fino a chiedere un favore a un macellaio amico per tenere la carne migliore da parte (sentita con le mie orecchie, seguita dall’immancabile “Vergogna!”).

Mi sto tenendo di proposito lontano da accostamenti con il codice penale: l’illusione su cui stiamo giocando è proprio quella che il codice penale e quello di procedura siano l’unico metro per valutare la bontà o meno di un’azione. Ma anche rimanendo attaccati al codice e non prendendo in considerazione la bibliografia sterminata che ha aiutato a definire la mafia dal punto di vista sociale, economico, politico, bisognerà pur fissare un paletto: la mafia è un’organizzazione criminale, il che implica l’esistenza di membri, gerarchie, divisioni, attività, il tutto finalizzato al controllo delle attività illegali su un dato territorio, utilizzando l’intimidazione e la violenza. Le attività possono essere più o meno grandi o variegate, e il territorio può essere più o meno vasto. Da nessuna parte sta scritto, o viene detto, che la mafia è anche tutto quello che sta al di fuori, o come contorno, all’organizzazione criminale. Esiste tutt’al più il concorso esterno, ma anche in questo caso devi concorrere dall’esterno a qualcosa. Un medico che insieme al direttore del suo ospedale trucca i conti del reparto per comprare apparecchiature inutili, spendere soldi pubblici e guadagnarci non è un mafioso. Un amministratore che prende tangenti da un imprenditore, o da un gruppo di imprenditori, non è un mafioso, né lo sono gli imprenditori. Questi sono corrotti, ladri, abusano del proprio potere, sottraggono beni pubblici: nessuna di queste definizioni implica la mafia.
Invece tutto deve diventare mafia, e il motivo, chiaro anche questo da più di trent’anni, ci viene ricordato proprio nei giorni delle commemorazioni di Capaci. L’antimafia è anche uno strumento di potere, e più si estende il concetto di mafia più questo strumento di potere si affila. Lo stesso processo di pensiero avviene in tantissime parti del ragionamento pubblico italiano, sempre più povero proprio per questi motivi. Qualsiasi cosa che non è fanaticamente legalitaria diventa “mafia”, e poco importa se quello di legalità è, storicamente e praticamente, un concetto di destra, che mette prima di tutto il rispetto della legge e poi le domande su come la legge funzioni e a cosa stia servendo. Sulla stessa scia, tutto quello che non è identico al pensiero di sinistra radicale diventa fascismo, e tutto quello che non è identico al pensiero di destra reazionaria diventa comunismo. Invece di discutere inizia l’istruttoria, l’accusa di mafiosità crea già il suo colpevole ed esige che questi dichiari le sue colpe anche inventandole, se necessario, oppure difendendosi e dimostrando in questo modo di essere un colpevole, perché solo i colpevoli si difendono. Il concetto di “colpa” oggettiva e verificata conta pochissimo, in questa nuvoletta di pensiero. Conta molto di più quello di colpevole, uno status che si può acquisire per nascita, censo, passato, opere, pensieri. Questi ultimi sono quelli più pericolosi: non si sopporta che ci sia gente disposta a pensare in modo meno che uguale a come si dovrebbe, e a come viene stabilito in apposite cerimonie e in altri materiali come scritti, libri, giornali, aule di tribunale.
Ne abbiamo dimostrazioni proprio in questi giorni di campagna elettorale e di reazioni passionali a un ministro della repubblica che, per quanto repellente, è stato nominato dal presidente della Repubblica e continua a ricevere la fiducia del parlamento, a proposito di legalità. Nel frattempo, proprio perché il reato di pensiero è quello sempre più contestato, il suddetto ministro manda la Digos a fare ispezioni anche nelle scuole o alle conferenze stampa di Piero Fassino.
Quest’anno l’antimafia è diventato lo strumento per contestare il ministro degli interni e tutto quello che rappresenta. Non è neanche sbagliato, mi limito a registrare che si usano i rituali per finalità molto presenti. Come l’eucarestia, che serve molto di più a chi sta da entrambe le parti dell’altare che a ricordare l’uomo morto in croce.