Gesù torna sulla Terra perché Dio vede che casino hanno fatto gli umani. L’umanità è tornata su questa idea ogni anno negli ultimi duemila anni, eppure è una storiella che non smette mai di stancare. Dipende dalle varianti, da come ci si immagina che il Salvatore si comporterà oggi. Chi lo dice che sarebbe quello stinco di santo che dicono i Vangeli, o la Chiesa?

Qui c’è l’erba, buonissima in paradiso ma anche sulla Terra niente male. Tanta, di ogni gradazione, sembra di sentirne l’odore attraverso le pagine. Birra, cocktail, margarita, se fossero drink veri bevuti da persone vere farebbero andare in dubbio etilico anche Hunter Thompson, che una volta a un tavolo con altre due persone ordinò un bloody mary, due margarita e sei birre e quando la cameriera svampita ridacchiò – aspettate altra gente? – lui tutto serio le disse di scoprire cosa volessero gli altri due e di portargli un bloody mary, due margarita e sei birre. In questo romanzo Thompson si troverebbe a casa sua, e non solo per tutti gli eccessi in mezzo alla pagina, di cui i protagonisti baciati dalla divinità fanno ampio uso, sempre rimanendo tra le droghe rock che ti fanno funzionare, fondamentalmente alcool di tutti i tipi ed erba. No, qui c’è proprio una scrittura Gonzo, godereccia e sempre con un sorriso stampato in faccia come se l’autore ti stesse raccontando una storia al bar. Scorre via liscia, come il sorso di bourbon in cui si rifuggiano tutti i cattivi scrittori italiani che vogliono farti capire che stanno parlando di America vera.

Ecco, questa del sorso di bourbon forse è l’immagine che riassume meglio come mi sento a proposito di “A volte ritorno” di John Niven, è una frase che ormai si usa per raccontare un’America da cartolina che esiste solo nella testa di chi ne sta scrivendo. Di solito è l’ultima risorsa degli scrittori sciatti che per qualche motivo si sforzano di scrivere rock, e fanno la stessa figura di un maggiordomo a un concerto punk. Niven per fortuna non arriva a questo e il suo romanzo è semplicemente sul filo del luogo comune, piazzando un sacco di momenti piacevoli in uno scenario, l’America prima dell’arrivo di Trump, di cui dà un’immagine super stereotipata – anche se in alcuni tratti sembra avere intuito dove stavano andando a parare le cose, come quando descrive la superficialità e il cinismo del sistema dei media e la polarizzazione dell’opinione pubblica. Ma mi sembra il classico effetto di chi spara a raffica un sacco di colpi: prima o poi qualcosa la becca.

Questo è il primo romanzo che leggo di John Niven, autore scozzese di altri romanzi sul mondo del rock e sull’essere maschi bianchi etero che da come ne parlano i recensori italiani sono “dissacranti”, “pirotecnici”, “irriverenti”. Che palle, i blogger innamorati di Bukowski che cercano un suo erede per tutta la vita, provando a vivere e scrivere come se fossero nella california di quarant’anni fa e rendendosi tristemente conto di essere a Cervia o a Lodi e di potersi consolare solo scrivendo “dissacrante” su un blog. Che è un po’ lo stesso sapore che mi dà Niven, che nel suo romanzo parla di un’America da manuale, quella in cui i produttori televisivi sono dei pezzi di merda senza rimedio attaccati ai soldi, ci sono i preti pedofili con le scarpe costose ai piedi, gli sceriffi un po’ più ragionevoli che ti chiamano “figliolo” e gli sbandati, quelli che circondano il protagonista, sono ex drogati o tossici che non possono farsi mancare un’avventura coast to coast. Da manuale, appunto, come il sorso di bourbon dello scrittore eccetera.

John Niven

Dicevo, questo probabilmente è l’unico limite del romanzo di Niven. In cui i personaggi sono esagerati in ogni cosa, per l’erba che fumano, per il linguaggio da fumetto di Garth Ennis che usano, quello che un fumettista italiano, Roberto Recchioni, ha definito linguaggio da arguto cazzone (o era da cazzone al bar, non ricordo). Esagerati in tutto, sembra di essere in Le Belve di Don Winslow, in cui si scopava a tre, si fumava erba incredibile, si beveva e si sparava con le armi automatiche. Qui non si scopa perché il protagonista è Gesù e anche se sembra che sia in grado di sdraiare qualunque donna gli arrivi a tiro – come dubitarne? – scene di sesso non ce ne sono. C’è il resto, l’erba e l’alcool e pure una sparatoria gigantesca, una cosa in cui alla fine, per contrappasso, riesci tu lettore a gioire perché quelli che mostrano i muscoli se la prendono in quel posto. Come non succede mai nel mondo reale.

La chiave è questa. Il romanzo di Niven è sopra le righe dall’inizio alla fine, è pieno di invenzioni niente male (Dio che tracanna scotch whisky e fuma cubani ed è più incazzoso di Vittorio Feltri, ma senza la parte querula; tutta la parte del paradiso e dell’inferno) e uno svolgimento che invece sai benissimo dove sta andando a parare, con lo scontro con i cattivi e la ricchezza con cui inventarsi una nuova vita migliore, un modello per tutti che alla fine attecchisce nel mondo. Alla fine non ti resta nulla, perché il romanzo si sforza di essere positivo per forza e di esserlo in un modo molto americano, con una ingenuità che si rifiuta di sentire ogni complessità, ed è strano che sia proprio uno scrittore scozzese a mettere insieme una favoletta così, di solito da quelle zone viene gente parecchio scafata.

Ma se si vuole mettere in pausa il cervello per un po’ e farsi delle sane risate leggendo una satira di come va il mondo di oggi, una di quelle che gli scrittori italiani non riescono neanche a sognarsi senza finire per fare una qualche pedante lezioncina moralistica su quanto esista un modo migliore di vivere e di votare, allora il romanzo di Niven è perfetto, è un pezzo punk rock che raschia e morde, un linguaggio velocissimo e senza svolazzi inutili che non è terrorizzato dagli aggettivi e non pretende di raccontare a nessuno la Verità. Vuole solo prendere per il culo un po’ di gente, e farlo senza chiedere scusa a nessuno. Di questi tempi, è una lezione di cui dobbiamo di nuovo capire l’importanza, e che va imparata tutti i giorni da capo. 

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