
Perché fare schifo è diventata l’unica scelta sensata.
Tagli di capelli, mobili e kimono
Scena uno. Sono a Palermo e devo tagliare i capelli. Essendo uno che ha lasciato il paesello a 19 anni e si è girato mezza Italia, non ho mai trovato un barbiere di fiducia. Lì nell’estrema provincia c’era Michele, negozio riaddobbato negli anni 80 con i mobili laccati verdi, la radio, la pila di giornali sportivi e la chiacchiera rigorosamente limitata a calcio e politica cittadina. Se gli chiedi di farti una barba Michele inizia a montare il sapone da barba col pennello, ti fa un impacco con un asciugamano caldo, ti massaggia la faccia, poi te la raschia con un rasoio a sciabola affilatissimo e ti rifà l’impacco prima di spruzzarti un dopobarba a base alcolica. La mia idea di paradiso.
Solo che Michele non può venire con me, e dunque devo trovare un barbiere. Ne ho provati un paio, e anche se sono davvero più bravi di Michele a tagliare i capelli mi manca l’atmosfera. In un salone di quelli moderni sono tutti molto impegnati a prendersi molto sul serio e si sta zitti, non si chiacchiera, non ci si fa due risate. Quindi cedo a una moda che ho intercettato su Instagram e mi metto a cercare uno di quei Barber Shop di ispirazione americana. Arredi in legno vecchia scuola, palo da barbiere, abbigliamento anni venti, maniche di camicia arrotolate per mostrare una collezione di tatuaggi di scuola Sailor Jerry, pubblicità della Proraso e di altri prodotti per la rasatura. Foto di tagli e di barbe con il pennello e il rasoio a sciabola. Andiamo, è il momento di lasciarsi alle spalle Michele.
Arrivo, mi siedo. Il barbiere tatuato ha, sì, i baffoni a manubrio, ma invece dei pantaloni gessati che aveva in foto ha i pantaloncini cargo e le infradito. La musica di sottofondo è elettronica scadente. All’ingresso c’è una moto degli anni settanta. I maestri della barberia parlano tra di loro, cazzeggiano e non mi coinvolgono neanche quando provo a scambiare due chiacchiere sul derby romano appena trascorso.
(No, non ci tengo così tanto a parlare con degli estranei, soprattutto se si presentano al lavoro con i cargo. Ma sono convinto che parlare con un barbiere sia un’arte, uno stile da praticare sul campo e che non si può imparare sui libri. Sai vivere, sai parlare con un barbiere. E vale anche per i barbieri con i loro clienti).
Chiedo di fare la barba e c’è un tizio apposito, e questo già è strano, un barbiere fa tutto e segue il cliente dall’inizio alla fine. Il ragazzo ha la barba rifinita e indossa un grembiule bianco, però per farmi la barba prende una bomboletta di quelle che compro al supermercato con due euro. Mi spalma quella roba sulla faccia, prende un rasoio a sciabola usa e getta di plastica, di quelli che se ti scappa la mano non mi tagli la gola ma tutt’al più mi lasci un raschietto. Ci lavora facendo un sacco di scene, sembra voglia dare l’idea di essere Van Gogh mentre dipinge il notturno. Finisce e mi spalma di crema dopobarba. Va fuori a finire la canna iniziata da un suo collega.

Scena due. Faccio Brazilian jiu jitsu, uno sport da combattimento che in Italia conosciamo in quattro gatti. Nel mondo del Bjj abbiamo un sacco di vezzi, tra cui abbreviare il nostro sport con tre lettere e sentirci molto più cazzuti di quanto siamo in realtà. Per sottolineare la cazzutaggine spendiamo uno sproposito in kimono, fondamentalmente dei grossi pigiamoni colorati di nero, blu o bianco dal taglio più o meno aggressivo.
I kimono costano in media più di cento euro. In Europa ci sono tre – quattro marche molto diffuse, ottime per qualità, prezzo e livello di cazzutaggine, usate anche dai campioni. A un certo punto, iniziano a spuntare su Instagram le pubblicità di alcuni kimono molto belli, col giusto taglio incazzoso adatto a fare sembrare un guerriero anche un botolo. Bonus: sono prodotti in Italia e ci sta dietro anche una cintura nera donna, in un mondo in cui le donne ancora sono poche (in Italia, perché negli Stati Uniti e in Brasile le donne del Bjj sono molte di più).
Bel kimono, buon prezzo, aiuta il movimento italiano, ha quella vernice da comportamento etico che ci fa diventare tutti più buoni. Sembra l’operazione perfetta, e infatti diversi miei amici lo comprano. Lo indossano per qualche allenamento, e poi lo lasciano nell’armadio. I kimono fatti dagli italiani sono meravigliosi da vedere nelle stories e anche di presenza, ma fanno schifo nei movimenti, ti fanno sentire impedito e ti danno, pare, una cattiva sensazione addosso. L’unica cosa buona è che ti fanno sembrare cazzuto in foto.
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Scena tre. Ordino un mobiletto per l’ingresso della mia casa. Cerco su uno shop on line, una delle milioni di attività che cerca di intercettare due trend in uno, quello delle vendite on line e quello dei mobili con il bel design e il prezzo basso. In questo caso, la vendita è normale ma solo perché io e mia moglie facciamo attenzione: nessuno di questi aspiranti imprenditori digitali ha la struttura di Amazon, e soprattutto nessuno sembra avere capito che la gente compra su Amazon perché, al netto di tutto, ha un servizio clienti molto più affidabile della media.
Sul lato del bel design con prezzo basso, ci facciamo convincere a comprare una cassettiera stile anni venti, mezza rustica, adatta allo stile bookstagrammer, con colori pastello come se fossero sbiaditi dal tempo per dare un po’ di carattere a quattro pezzi di legno appena fabbricati in Bangladesh. Da un antiquario lo stesso mobile costerebbe quattro volte quanto ci chiede lo shop on line, ma sarebbe un mobile con una storia e se c’è una cosa a cui proprio non aspiro è entrare da un antiquario e farmi spennare per farmi raccontare la storia di un mobile.
Dunque ordiniamo e dopo qualche settimana la cassettiera arriva e per farmela piacere dovrei fotografarla e mandare l’immagine a parenti e amici, per fare vedere quanto è figa casa mia. Se invece ci appoggio le chiavi di sopra mi accorgo subito che è fatta nel più scadente compensato che ci sia in circolazione, verniciata male, rifinita peggio. I cassetti non scorrono bene, sembrano esattamente quelli che avrei potuto fare io con un paio di assi e un po’ di colla, e io sono bravo a costruire mobili tanto quanto sono bravo a spedire razzi sulla Luna.
Però l’ho pagata. Non quanto un mobile con una storia, ma l’ho pagata. Dovrei fare un sacco di foto con quel mobile. Solo in questo modo sarebbe stato un acquisto sensato. Ma a me serviva un coso dove tenere altre cose, non un oggetto di scena.
Pecore nere e nessuna bianca
Quella dell’autenticità è una storiella che abbiamo letto, sentito e ascoltato fino alla nausea negli ultimi anni, fino al punto da esserci annoiati. Si cerca di essere autentici, di trovare qualcosa che ci differenzia dalla massa di pecoroni impegnati a comprare e consumare cose tutte uguali, e in questa fotta della distinzione ovviamente diventiamo tutti uguali. Il gregge degli spiriti liberi, lo chiamava il mio Hitch. Questa produzione in serie di persone e passioni è diventata una piaga anche in diversi settori lavorativi, come quello della cultura o quello meravigliosamente mediocre e squallido dell’imprenditoria digitale.
Sì, per carità, c’è gente che guadagna un sacco di soldi e vive alla grande grazie all’imprenditoria digitale, a Instagram, ai blog e a tutto il pacchetto che si può trovare in un qualsiasi post motivazionale di un guru del nomadismo digitale. Ma per ogni Chiara Ferragni o Dario Vignali in circolazione ci sono in giro centinaia di automi, replicanti e stronzi, che impestano internet di foto tutte uguali, tutte entusiaste e ispirate, fatte con reflex che costano più di quattro mesi d’affitto in una città media e tutte maledettamente uguali. Il dettaglio su un oggetto suggestivo, la pic piena d’entusiasmo per un luogo appena scoperto insieme ad altri milioni di persone che ci vanno tutti i giorni, sempre con il protagonista preso di spalle che spalanca le braccia di fronte a un tramonto e fa un segno di vittoria, mi immagino questi posti pieni di imbecilli a braccia spalancate. Oppure la tazza di tè che suggerisce introspezione e profondità, o il libro con la didascalia in cui si sottolinea quanto sia importante leggere, perché prendere il proprio pubblico per una massa di cretini che non aprono un libro se qualcuno non glielo suggerisce è solo un gradino sopra il rendersi conto che il proprio pubblico è fatto davvero da cretini che pensano di poter passare la vita senza aprire un libro. Uno qualsiasi.
E fino a qui ho parlato solo dei feed instagram. Quando si aprono i blog di queste persone (perché per qualche ragione hanno tutti un blog), quello che casca addosso come l’anta di un lucernario è prosa scadente e approssimata fatta più per i motori di ricerca che per i lettori in carne e ossa, attraverso cui i digital entrepreneur mischiano insieme comodi consigli tecnici e considerazioni su come si debba fare per avere una vita che somigli il più possibile alla loro, che stanno Vivendo il Sogno e quindi magari tu, lettore sfigato, potresti volerli imitare attraverso le loro cinque strategie per mettere da parte qualcosa per un viaggio o per capire i tuoi obiettivi.

Guai a finirci in mezzo: una volta ho seguito un paio di queste persone e sono arrivati centinaia di profili tutti uguali, come i tafani quando spunta il culo di un cavallo, a chiedermi non tanto l’amicizia – uno con un minimo di sale in zucca non chiederebbe mai l’amicizia a uno come me – ma la conferma del loro personaggio. C’è un po’ del teatro, in certi sottoboschi dei social media: questa gente vive nella grande finzione di avere realizzato un sogno di libertà, lavorare dove gli pare e nel frattempo girare il mondo e guadagnare mentre sta dormendo, ma perché quel sogno funzioni davvero hanno bisogno di un pubblico, di gente che clicca e mette i like, che paga per un corso in cui farsi spiegare come scrivere meglio o come raggiungere meglio i propri obiettivi. Che ci vuole? Mettiti lì, scrivi i tuoi obiettivi, inizia a lavorarci. Facciamo finta che funzioni, e così la commedia può andare avanti.
La cosa più urticante però è la pretesa di verità, di genuinità. Se questa gente recitasse una parte e ne fosse cosciente, avrei molto più rispetto. Ciascuno ha il suo ruolo e tutti devono riempire il portafogli, ed è molto più comodo farlo con i like che con un lavoro vero. No, questa gente ha la pretesa di essere genuina e onesta, si vende come l’ultimo barlume di verità in un mondo infame che divora le persone con la plastica e i numeri.
Vale per le persone e le cose. Ecco il perché delle storielle che ho messo all’inizio: il barbiere che si vende come un rimasuglio dei gloriosi anni venti, l’avventura imprenditoriale nel Bjj ma con un kimono che fa schifo, il mobile bello a vedersi ma schifoso a usarsi. Tutte cose costruite più per riuscire bene in foto che per svolgere bene la propria funzione. Soprattutto, tutte cose fatte apposta per dare a chi le consuma l’impressione di avere accesso a un’Esperienza Autentica®, di livello più alto rispetto a quello che ha il resto della massa.
Book & Bro
Qualche settimana fa la bolla isterica del mondo culturale che sta su Twitter ha avuto da ridire sulle bookstagrammer. Vi prego: questa frase è già abbastanza ridicola da scrivere, ed è ancora più ridicolo pensare che ci si è stati dietro per giorni, dietro a quella stronzata. Il punto di partenza è stato un articolo scritto da Massimiliano Parente, scrittore, una di quelle figure un po’ laterali e non facili da inquadrare in un’ideologia o un tipo umano preciso che a me d’istinto fanno simpatia. Parente ha preso a male parole le bookstagrammer, o book influencer, ovvero quelle tipe che fanno pubblicità ai libri su Instagram, e lo ha fatto prendendo per il culo il modo in cui questa pubblicità si svolge, sempre uguale e sempre stucchevole. Poi, va bè, il tutto è degenerato nella classica caciara, perché Parente ha detto anche che una delle bookstagrammer pubblica solo libri scritti da donne ed è scattato il classico riflesso “Non puoi criticare una donna che si prende il suo spazio sei un servo del patriarcato mi fai schifo dovresti essere cancellato dalla faccia della terra”.
(Se vi sembra che l’ultimo virgolettato sia una mia esagerazione grottesca: prima che fosse sospeso il suo account su Instagram, Parente ha ricevuto un sacco di minacce sotto la foto di sua figlia di sette anni, con tanti auguri alla pargola di essere separata dal padre, magari da una morte prematura. Viva la revolucion!)
Al di là della polemica, che è servita a regalare qualche ora di lotta per il Futuro dell’Umanità a gente che normalmente nessuno si caga neanche per sbaglio, l’articolo e la caciara hanno fatto discutere del fenomeno bookstagrammers, come i media chiamano qualsiasi cosa gli passi sotto il naso da tempo ma non riescono a capire neanche impegnandosi. Le book influencer parlano di libri, e mi sembra che in pratica sia l’unico argomento a loro favore: in questo paese la parola “libro” con tutti i suoi parenti e le evocazioni simboliche basta a giustificare qualsiasi cosa. Dunque le bookstagrammers fotografano le copertine di libri sempre in contesti ispirati, che tendono a somigliarsi tutti: la tovaglietta, il cornetto, il cappuccino, la luce che arriva da una finestra come se si fosse al mattino e il primo pensiero della bookstagrammer fosse stato quello di mettersi a leggere, accanto al suo cappuccino.
Come minchia ci riescono, poi: io se leggo leggo, non riesco a tenere un libro con una mano e una tazza con l’altra, e sì che ho mani più grandi della media delle donne in circolazione.

A parte il parlare di libri nelle didascalie dei propri post, le bookstagrammer hanno questi feed carini, la versione con molte pretese degli imprenditori digitali per un target fatto di persone il cui unico talento è aprire un libro e leggerlo da sinistra a destra e sentirsi uniche e speciali per questo. Infatti le bookstagrammer usano molti dei luoghi comuni dei digital entrepreneurs. Le loro didascalie ispirano uno stile di vita unico e autentico, a leggerle sembrano impegnate in un viaggio di iniziazione a cui si può accedere solo con un paio di lauree in filosofia, una delle quali prese ad Heidelberg sotto la direzione di Cacciari sotto steroidi, e però se si accorgono che i libri che dicono di leggere non acchiappano like non continuano a leggerli, no, vanno a caccia di roba che si adatta meglio alla messinscena.
(Prima o poi lo farò un post sulla gente che meno di ventiquattro ore dopo l’uscita di un libro di ottocento pagine è lì a twittare quanto sia seminale, essenziale, definitivo per ridefinire la nostra cultura)
Insomma, anche le bookstagrammer mi sembrano false come una moneta da tre euro, e più sono false, costruite e prive di contenuto (perché quali contenuti vuoi mettere, in un rettangolo grande quanto il palmo di una mano?), più pretendono di essere rivoluzionarie che neanche l’avanguardia degli anni venti del novecento. Se non credi nella loro autenticità si sgonfiano, ma se iniziassero a essere davvero autentiche si sgonfierebbero ancora più in fretta.
Vale solo per le bookstagrammer? No. Per esempio, si è diffusa tutta una iconografia per uomini, potremmo chiamarla la Bronografia, basata su un ideale di uomo vecchia scuola, tutto spaccare legna nei boschi, rasoi a sciabola, barba curatissima, abiti da lumberjack ma senza la patina di sudore e segatura. A contorno, prodotti per barba e capelli, integratori, un sacco di consigli sul fare pesi e riconoscere i whisky e l’idea di fondo che non stai solo comprando un prodotto, no, stai scegliendo una Nuova Via per Essere Uomo.
Il che, per inciso, è una discussione che prima o poi andrà fatta, perché stiamo lasciando la definizione di mascolinità a chi, semplicemente, non ha titolo per maneggiarla e ha tutto l’interesse a distorcerla. Ma siamo di nuovo lì, ci sono molte identità da puntellare, lì fuori, e dove ci sono identità da puntellare si infila la grande fiction dei social.
Kitsch
Tutto questo potrebbe sembrare ed essere futile, dato che questi discorsi, tra un milione di anni, non varranno a niente (controdeduzione: qualunque idiota può pensare a un lasso di tempo abbastanza lungo per dire agli altri quanto sono futili). Ma nessun argomento è futile, se si studia la cultura di massa o si usa la scusa dello studio per prendere a male parole la gente. Ci sono un paio di considerazioni da fare.
La prima è che anche in questa grande opera di fiction che sono i social network si è affermata la divisione in tribù. Anzi, forse proprio i social, il terreno in cui siamo per definizione più isolati che mai, si è realizzato il sogno erotico di qualsiasi stronzo che cerca di comandare sopra le teste e il consenso delle persone, quello per cui se non appartieni a un gruppo, uno qualsiasi, non conti un cazzo, tutto quello che fai e dici viene visto attraverso il filtro di chi sei, da dove vieni, che colore è la tua pelle, quale musica ascolti e così via. Vale per tutti, dai barbieri alle intellettuali da tinello.
A parte questo, questo meccanismo della cultura che simula la propria stessa autenticità mi ricorda tanto il ragionamento di Umberto Eco sul Kitsch. Un dispositivo che dà l’impressione di accedere a un’esperienza alta, e per farlo usa termini e concetti già digeriti dall’avanguardia, ma che lascia il pubblico libero dal fastidio di pensare, anche solo per un attimo. Il saggio di Eco sul kitsch ha ancora diverse indicazioni illuminanti:
[…] il Kitsch si proponga allora come cibo ideale per un pubblico pigro che desideri adire ai valori del bello c convincersi di fruirne, senza perdersi in sforzi impegnativi; e Killy parla del Kitsch come tipico atteggiamento di origine piccolo borghese, mezzo di facile affermazione culturale per un pubblico che si illude di fruire una rappresentazione originale del mondo, mentre in realtà gode solo di una imitazione secondaria della forza primaria delle immagini.
In tal senso Killy si allinea con tutta una tradizione critica che dalla Germania si è allargata anche ai paesi anglosassoni la quale, definito in questi termini il Kitsch, lo identifìca con la forma più appariscente di una cultura di massa e di una cultura media, e comunque di una cultura di consumo.
Umberto Eco, “Apocalittici e integrati”, la pagina non l’ho segnata perché non sono disciplinato.
Tutto quello di cui abbiamo parlato finora, secondo questa definizione, è kitsch. Complimenti a un libro di più di cinquant’anni fa per essere ancora attuale, ma forse è anche merito degli intellettuali odierni, che pensano solo a scambiarsi favori sugli inserti culturali con articoli rilevanti quanto una lista della spesa.
A me della definizione di qui sopra piace tutto, sia il cenno all’illusione di godere di una rappresentazione originale quando in realtà si sta solo consumando qualcosa, sia la puntualizzazione sul Kitsch come aspirazione piccolo borghese all’affermazione sociale (dice il saggio: niente è più provinciale della paura di essere provinciali) (a parte le frasi che iniziano con “dice il saggio”).
Ma la parte che mi piace di più è quella in cui Eco dice che il Kitsch è fatto per persone che vogliono convincersi di fruire il bello. Non è il consumo in sè: chi consuma il kitsch deve essere convinto di accedere a qualcosa di superiore, che lo separa dai poveracci che non possono capirlo. Si mette su un piedistallo, per usare un’immagine abusata.

Vediamo se invece preferite questa: il Kitsch è lo strumento della finzione. Utilizzi il kitsch, lo guardi, lo apprezzi, per sentirti parte di una cultura che accede al Bello, al Colto, al Profondo. In definitiva, se la cultura è ciò attraverso cui passano le divisioni di classe, tu vuoi fare capire di essere più in alto di dove sei, come un parvenu qualsiasi [aggiungere rancore a caso qui]. Vuoi essere uno di quelli che maneggiano il Significato, ma non vuoi accollartene né la fatica né le conseguenze. Ti basta fare sapere agli altri che tu la verità l’hai capita, sai maneggiarla, anche se solo sotto forma di libro con tovaglietta abbinata o di stivali in cuoio con cui raggiungere una collina e guardare l’orizzonte con l’aria cazzuta (questa è Bronografia).
Meglio la sfiga
Poi guardo dei documentari sul movimento hip hop degli anni novanta, zeppi di gente che facevano cose per cui il termine cool è riduttivo, perché sprizzavano stile in ogni movimento, ogni nota suonata, ogni verso cantato, ogni vestito indossato. Oppure guardo il Dave Chappelle Block’s party, o i video delle band punk rock distrutte dal rancore e dall’eroina nel corso degli anni ottanta, o le fotografie di scrittori, e hanno tutti un tratto comune: a guardarli con gli occhi di oggi, fanno schifo. E non schifo nel senso di “allora questa roba si usava ma oggi è superata”, no, proprio schifo anche rispetto ai canoni di allora. Maglioni giganteschi dai colori improbabili. Pose sfigate di fronte a monumenti nazionali. Abiti da uomo che dovrebbero essere eleganti ma sempre sformati, con i colori improbabili, stropicciati. Libri buttati a casaccio, con le orecchie tra le pagine. Orologi di plastica.
E a nessuno fregava un cazzo. Perché, guess what? Quella gente era troppo impegnata a esplorare, fare un sacco di cose con la propria scrittura, i propri dischi, i propri viaggi. Se scrivevano recensioni, si divertivano un mondo a scrivere stroncature o a spiegare perché si trattava di grandi libri, non spendevano metà del tempo a capire con cosa si adattavano i colori delle copertine. E i rapper con i maglioni sformati e giganti, stile Robinson? Anche loro, troppo impegnati a scrivere musica che spaccava.
C’è una frase di uno scrittore sfigato che non sapeva curarsi la barba come si deve, a proposito dei rivoluzionari da strapazzo:
Per questo detestano tanto il processo vivo della vita: non sanno che farsene, dell’anima viva! L’anima viva esigerà vita, l’anima viva non obbedirà alla meccanica, l’anima viva è sospetta, l’anima viva è retrograda! Mentre la loro, se puzza un po’ di cadavere, si può farla di caucciù.
Autore: quello che non avete trovato su Instagram.
Ed ecco: bookstagrammer, Bronografi, spacciatori di servizi e prodotti autentici e cazzuti sono quelli che disprezzano di più l’anima viva di cui parlava lo scribacchino qui sopra. Si affannano tanto a simulare un briciolo di vita all’interno delle loro foto o delle loro biografie, ma la verità è che anche questo briciolo di vita è finto. Nello stesso istante in cui è instagrammata, la vita si raffredda, diventa caucciù, bellissima e morta. Mentre quella vita, con il suo lato selvaggio e incontrollabile, è qualcosa che respinge per definizione, che può essere apprezzata solo se si è disposti a temerla, se ogni tanto ci si spinge verso il margine.
Questo chi campa per i like, per piacere a più gente possibile, semplicemente non se lo può permettere. Sono terrorizzati dall’idea di non piacere ad altri tizi con la testa zeppa di caucciù, e dunque si danno da fare a levigare e ripulire. Quello che rimane è la cosa più lontana dalla realtà, dal carattere, che ci sia al mondo. Che non sarebbe neanche un problema, se non fosse che gli influencer sono quelli che, un’affiliazione per volta, si stanno infiltrando nella vita e nell’immaginario quotidiano di un’intera cultura. E lo stanno divorando come neanche i funghi di the Last of Us.