
Ogni tanto capita di intercettare delle figure che ci piacciono subito, a pelle. A me capita spesso, navigo su internet o leggo un libro o ascolto una canzone e mi piace guardare le biografie delle persone, degli scrittori, dei musicisti e di qualsiasi altra persona, e a volte sento un’ammirazione incondizionata. Di recente mi è capitato con un personaggio distante migliaia di miglia da me, ma a cui per qualche motivo continuo a pensare quando mi chiedo verso che direzione bisognerebbe pilotare la vita ogni giorno.
The Sailor
Bisogna scegliersi dei modelli, come diceva uno, ma negli ultimi tempi mi sono fatto l’idea che in realtà siano più i modelli a scegliere noi. Uno può anche decidere di muoversi in una certa direzione, di volere vivere seguendo l’esempio di personaggi nobili e ambiziosi, ma poi è l’ammirazione a svelare davvero in che modo siamo fatti.
Questo perché l’ammirazione, la stima incondizionata verso qualcuno, è una spia: ci dice quali sono le cose che preferiamo, quelle che ci piacciono di una persona e del suo modo in cui guarda la vita, e di riflesso ci dice a cosa diamo davvero importanza.
Di personaggi così, che ammiro più per quello che rappresentano che per quello che fanno, io ne scopro di continuo. Sailor Jerry è l’ultimo che ho scovato. Nato più di un secolo fa con il nome di Norman Keith Collins, si arruola nella marina americana e inizia a viaggiare per il mondo. Al tempo stesso apprende l’arte del tatuaggio in un’epoca in cui tatuarsi era una cosa vista con uno stigma sociale, il classico marchio che solo carcerati e marinai osavano farsi. Sailor Jerry impara a battere inchiostro nei peggiori bar della Chicago degli anni trenta e continua a viaggiare per mare e perfezionarsi. Dopo la seconda guerra mondiale arriva alle Hawaii e inizia una corrispondenza con artisti del tatuaggio giapponese, in teoria i vecchi nemici degli americani, in pratica gente con cui il tatuatore americano si confronta di continuo e da cui apprende, studia, assimila. Apre un tattoo parlour a Honolulu in cui mette a punto uno stile che fa storia, l’Old School con linee nettissime, colori e soggetti pensati per i marinai americani di stanza sulle isole che, prima di tornare a casa, si fottevano la paga in donne, alcool, gioco e tatuaggi, come il più classico dei stereotipi da avventurieri.
O da maschi tossici, si direbbe oggi, visto che viviamo in tempi in cui il tatuaggio è molto più approvato dell’epoca di Sailor Jerry ma non siamo andati molto avanti quanto a contatto con il lato selvaggio della vita, con l’esplorazione dell’ignoto, con lo spingersi verso il limite.
Anzi: più andiamo avanti e più ne siamo terrorizzati.
La vita di Sailor Jerry alle Hawaii si svolge su più dimensioni. Non ha solo il tatuaggio: comanda una barca a vela a tre alberi con cui porta turisti a zonzo per le isole Hawaii, pare sia un marinaio in gamba, e quando non è impegnato a tatuare o navigare conduce il programma radio *Old Ironsides*, in cui alterna rabbiosi rant politici alla lettura delle sue poesie. Oppure suona il sax nella sua jazz band o impara a fare l’elettricista e mette a punto delle nuove macchinette per tatuaggi.

Pare sia un conservatore di ferro della vecchia scuola, Sailor Jerry, e il bersaglio dei suoi improperi è soprattutto il governo che mette il becco negli affari delle persone comuni, ma come si dovrebbe essere capito è uno di quei personaggi che è molto difficile da chiudere in una scatola. Non è un figlio dei fiori e anzi, per quel poco che ho potuto capirne, detestava gli hippy, ma il suo stile di vita è quanto di più lontano ci si potrebbe aspettare dalla classe media conservatrice degli anni ’50, con il suo grigiore e la sua mediocrità come stile di vita e modello di pensiero. Mi dà l’idea di uno che ha capito presto di non potersi accontentare di stare tranquillo e si è dedicato per gran parte della vita a esplorare il bordo, l’orlo del caos, la zona sconosciuta in cui succedono le cose più interessanti, quella di cui parlava Hunter S. Thompson (nume tutelare di questo sito) in uno dei suoi pezzi più riusciti. Il bordo: qualcuno impazzisce quando lo vede, qualcuno arriva a sfiorarlo e si ritira immediatamente quando guarda dal precipizio, per paura di come potrebbe diventare. Ma il limite è sempre lì fuori, da qualche parte.
Va bene, ma perché?
Ora, qual è il motivo per cui uno come me, nato dall’altra parte del mondo, in epoche e situazioni diverse, dovrebbe ammirare uno come Sailor Jerry? Me lo chiedo da un po’ e non sono riuscito a darmi una risposta. Non, almeno, una che mi soddisfacesse, visto che per come sono cresciuto, per il luogo in cui sono venuto al mondo e per la sua storia, uno come Sailor Jerry dovrebbe starmi parecchio sul cazzo, o quantomeno dovrei essere indifferente alla sua esistenza. Per capire meglio, allora, sono partito da un dettaglio apparentemente insignificante, il fatto che Sailor Jerry suonasse il sax in un gruppo jazz.
Sono portato a rispettare di default i musicisti jazz, visto che nel mio piccolissimo suono uno strumento e so quant’è difficile entrare in quell’ordine di idee musicali, la fatica che ci vuole, lo studio e l’impegno. Ma i musicisti jazz li ammiro non solo perché fanno sembrare facile quello che fanno, ma perché, come diceva Sean Connery in Casa Russia, un film che ora è un po’ finito nel dimenticatoio, non credo di avere mai conosciuto musicisti jazz privi di tendenze anarcoidi. I jazzisti sono matti, hanno questa musica molto strutturata e tecnica, devono passare un sacco di ore a esercitarsi con disciplina, e forse come reazione a questo regime diventano insofferenti alle regole.

(Deve esserci anche qualcosa che ha a che fare con la struttura stessa della musica e con la sua storia: il jazz in effetti nasce per distruggere regole una dietro l’altra, anche se è difficile immaginarselo oggi che invece è diventato la colonna sonora obbligatoria degli eventi fighetti. Ma questa è un’altra storia, magari un giorno ne scriverò)
Dunque, per me il jazz si porta dietro tutto un carico di simboli, i musicisti matti, la sperimentazione, e Sailor Jerry è un jazzista, e unisce l’essere un jazzista a un sacco di altre cose: è un artista, disegna i suoi stessi tatuaggi, scrive poesie, fa programmi radio, naviga. Ha, in altre parole, una vita sfaccettata. Non si accontenta di fare una cosa sola. Mette sè stesso in un sacco di cose. Questo mi piace di lui, più di ogni singola cosa che faceva: non si è mai accontentato di essere una cosa sola, solo il tatuatore, solo il marinaio. Sperimentava. Studiava. Guardava a tutto quello che poteva trovare lungo il cammino, e se era incuriosito si fermava a farla.
Altri
Ora, è chiaro che io ho poco in comune con Sailor Jerry. A parte la musica jazz, che sto imparando da poco, io non tatuo, non navigo, ho smesso di fare radio un secolo fa e il mondo dovrebbe pagarmi per continuare a non scrivere poesie, visto che quando ci ho provato il risultato era simile a quello dei Vogon (che utilizzano le proprie poesie come strumento di tortura). Ma lo stesso, non riesco a resistere a uno che tatua tutto il giorno e poi va a vomitare davanti a un microfono il suo astio politico o va a suonare in una band. Quindi, perché ammiro Sailor Jerry o altre persone? Che cosa può dirci di noi, l’ammirazione per gi altri?

Secondo lo psicologo canadese Jordan Peterson i momenti di ammirazione spontanea verso altre persone sono degli spot sulla nostra mente, indicatori sulle cose a cui diamo davvero valore, ciò che ci sembra molto importante nella vita. Lui raccomanda sempre di fare molta attenzione alle persone che ammiriamo e al perchè le ammiriamo e questo perché spesso noi stessi ci prendiamo in giro, ci diciamo di avere ben chiaro per cosa pensiamo valga la pena vivere e in che modo farlo, e il più delle volte invece passiamo, se va bene, più della metà della vita prendendoci per il culo, dicendo di essere dei bravi ragazzi fedeli a noi stessi e alle nostre scelte, che amano davvero il lavoro che hanno deciso di fare quando avevano diciotto anni, che davvero adorano tutto quello che li circonda e che no, non hanno mai preso nessuna decisione per compiacere i propri genitori o la propria moglie o il proprio marito o compagno o anche solo un’idea di noi stessi che ci è arrivata dai film, dai libri, dall’università o da qualsiasi altro luogo fatto apposta per dire agli altri qual è il modo più corretto di vivere.
Suona familiare?
Per quanto raccontiamo a noi stessi di sapere quello che vogliamo, di avere ben chiari i nostri valori, oppure di essere super-relativisti e senza nessun valore fisso, non riusciamo a vivere come se fosse così, o come se la vita non avesse senso. Noi continuiamo a dare valore alle cose, a stabilire gerarchie, a dire che una cosa è meglio di un’altra, e questo lo facciamo di continuo. Non c’è nulla di male, anzi è necessario, perché senza gerarchia non sapremmo neanche dove guardare: il mondo è gigantesco e non possiamo guardarlo tutto.
L’idea di Peterson è proprio che senza queste gerarchie, senza dire che una cosa è più importante di un’altra, non riusciremmo proprio a percepire la realtà. Il mondo è troppo grande e ci sono troppi stimoli e non possiamo guardarlo tutto contemporaneamente, dunque dobbiamo selezionare, e questa selezione la danno i valori: se pensi che qualcosa sia importante da guardare, guarderai lì e non altrove.
I tuoi valori stabiliscono cosa vedrai e cosa no. Davvero così semplice.
Perché tutto il discorso sull’ammirare le altre persone, allora? Intanto, nessuno va in giro dicendo “questo è un mio valore, lo so bene, e vale più degli altri”. Chi ha ben chiaro cosa vuole lo tiene in background, non deve ripeterselo di continuo. E questi sono i fortunati, perché la grossa probabilità, se sei un uomo o una donna nei tuoi venti, trenta o quaranta, è che hai una vaga idea di quali siano i tuoi valori, li hai intuiti, ma non sempre riesci ad averli ben chiari. Potrebbero essere contraddittori, o potresti, semplicemente, non esserti mai posto il problema, fino a che un giorno non ti trovi a chiederti chi accidenti sei, cosa ti piace, dov’è che devi portare l’ammasso di risentimento, rabbia e tristezza che è diventata la tua vita. Ed è proprio in quei momenti in cui ci si chiede che direzione si vuole prendere, dove si vuole andare e a cosa dare importanza, che ci si sta chiedendo quali accidenti sono i valori.
Tradotto, significa che stai cercando qualcosa su cui sbattere la testa. Una qualsiasi. Mark Manson dice che stai semplicemente cercando o riformattando qualcosa di cui ti freghi davvero qualcosa.
Il caso tipico, la persona che molla tutto per andare a fare un viaggio e cercare sè stessa, è lo stereotipo di questi momenti. Oppure quelli che si danno allo Yoga o allo sport compulsivo, o che trovano la propria ragione di vita nel mettersi a dipingere anche se per anni non hanno neanche guardato un disegnino. Stessa cosa: riformattazione, trovare qualcosa di cui ti freghi di più di quello che stai facendo tutti i giorni, andare avanti. Qualcuno fa danni grossi, perché scopre di non volere una famiglia dopo essersene fatta una bella grande oppure perché decide che la sua vita dissoluta deve cambiare ed è il momento di fare sentire sbagliati gli altri per emendare i propri peccati del passato.
Ci si potrebbe trascinare per anni in questa ricerca per prove ed errori, e, come dicevo, molti fanno delle minchiate strada facendo. Il consiglio che dà Peterson allora è di guardare all’ammirazione verso gli altri, perché i momenti in cui ammiriamo qualcuno sono quelli in cui possiamo avere un’idea di cosa ci lascia del tutto freddi e cosa invece ci terrebbe alla catena per tutta la vita, contenti di restarci. Perché alla fine si tratta di quello: non di “essere felici”, che è una stronzata, ma di trovare delle cose per cui siamo disposti ad andare avanti nonostante tutto.
Pantheon
Dunque le persone che ammiriamo ci dicono chi siamo, e non nel senso di “che persone siamo” (quello raramente riusciamo a dirlo noi stessi), ma in quali valori crediamo. Ciascuno ha un Pantheon, un’espressione che è diventata ridicola da quando i partiti politici italiani, da destra a sinistra, fanno a gara per mettere chiunque tra i propri ispiratori, senza stare a sottilizzare troppo sul pensiero o le azioni di chi dicono di ammirare. Ma come dicevo, ciascuno ha un suo consiglio di anziani che lo ispira, figure di mentori immaginari e reali, e dovremmo tutti analizzare un pezzo di questo consiglio dei saggi virtuale per capire in che modo siamo fatti.
Quando penso alle mie figure di riferimento, per esempio, cito sempre Christopher Hitchens, Theodore Roosevelt, Winston Churchill, Ernest Hemingway, Joseph Conrad, e questi sono solo quelli che metto su un piedistallo, quelli di cui metterei una foto accanto alla scrivania per essere continuamente ispirato. Se allargo lo sguardo anche tra figure che non entreranno in un libro di storia, o che ci entreranno per qualche nota a piè di pagina, ci sono tantissime persone che ammiro: Sailor Jerry, Hunter S. Thompson, William Finnegan, un numero fin troppo lungo di musicisti dall’arte sconfinata come Stefano Bollani, oppure quelle strane figure di scrittori-poeti-artisti marziali-musicisti-viaggiatori in cui ogni tanto mi imbatto. Gente diversa, ma sono riuscito a trovare una regola: se scrive cattura il mio interesse, se si dedica anche ad altro, a molto altro, ha i numeri per piacermi.

Questo “altro” nel caso di William Finnegan è il surf (lui è un grande scrittore), nel caso di Thompson è la benzina che metteva nell’esplorare politica e droghe, nel caso di Roosevelt è il fatto che oltre che un politico fosse uno scrittore, uno sportivo, un esploratore, un praticante di arti marziali. Henry Rollins è un altro di questi personaggi: musica punk, poi sperimentazione, poi scrittore, poi autore di spoken word, poi attore; oppure Mike Vallely, skater, cantante punk e animo inquieto da sempre; o ancora, i Lost Poets, vecchia band della contestazione anni settanta, mettevano insieme jazz e poesia, molto distanti dalle stronzate vino e jazz di oggi, avevano una carica incredibile.

Il bello di questo gioco è che si può fare anche con i personaggi di fantasia. I personaggi sono dei distillati, non potranno mai essere complicati come delle persone vere ma proprio per questo riescono a parlare bene di cose più astratte e universali. Il senso di ogni racconto, almeno di un ogni racconto ben riuscito che tocca le corde di chi lo ascolta, non è dirci come vanno le cose, ma come sarebbe meglio comportarsi in certe situazioni (alè, ho riassunto secoli di mitologia in due righe). Mi viene in mente un’altra citazione di Casa Russia. A un certo punto Sean Connery, che fa la parte di un editore inglese ubriacone e suonatore di sassofono e si descrive come “un grande letto sfatto con su poggiata una borsa della spesa”, è sotto interrogatorio della CIA per un caso di spionaggio. L’agente americano lo descrive con una domanda: signor Blair, lei ha tutte le qualità: generosità, coraggio, cortesia, sangue freddo, sassofono e follia spericolata. Cosa ci va a fare di continuo in Russia? L’editore risponde “mi piace il posto”, e nella sua banalità è perfetto per confermare un’altra cosa talmente banale che ce ne dimentichiamo di continuo, ovvero che non importa tanto dov’è che vai, ma il percorso che fai. A me quel personaggio piaceva parecchio per questo, editore bon vivant che pubblica libri e si interessa di letteratura e politica, suona il sax alle feste, è un ubriacone impenitente e un gentiluomo e anche in una storia di spionaggio rimane sè stesso. Non si limita a una cosa, ne fa tante, e l’obiezione che sia un personaggio di fantasia non vale, perché il discorso è proprio tutto qui: deve rappresentare dei valori, non la realtà.
The point being
Di persone che vorrebbero essere ammirate, soprattutto di questi tempi, ce ne sono anche troppe. Nell’ecosistema di oggi siamo bersagliati tutti i giorni da gente che ci dice quanto sia importante quello a cui si dedica, talmente tanto che dovremmo dedicarci anche noi a quella cosa. Di solito, guarda caso, ci chiedono di dimostrare il nostro attaccamento comprando della roba o diventando come loro, e noi, che non siamo sicuri di chi diavolo siamo o di che cosa ci piaccia, compriamo le identità come se fossimo al supermercato, ci travestiamo da biker, da aviatore, da soldato, da punk rocker, da avvocato, da attivista ecologista o da designer, mostriamo a chiunque di volere vivere all’aria aperta comprando biciclette o abbigliamento sportivo o facciamo qualsiasi altra cosa che richieda di comprare qualcosa per essere qualcuno.
Una volta si diceva che siamo i piccoli protagonisti dei nostri drammi, ma la verità è che siamo gli scenografi, indaffarati a riempire il palco di oggetti di scena. Questo succede per pigrizia o perché davvero non sappiamo che pesci prendere, e allora preferiamo lasciare che siano gli altri a decidere al posto nostro e pensiamo “Ma sì, proviamo anche questa” e ci lanciamo in cose che non faremmo mai sotto tortura, se solo fossimo un po’ più centrati e consapevoli.
A sentire parlare di valori, uno della mia generazione tende ad alzare gli occhi al cielo pensando subito a roba noiosa, tipo i vecchi che dicono che oggi non ci sono più valori (ma non diciamo più vecchi, diciamo Boomer, perché siamo dei conformisti al cubo). O, sull’estremo opposto, mi è capitato di sentire millennial parlare di valori con una foga e una convinzione che ho sempre trovato sospette, mi hanno sempre ricordato il fanatismo di chi non ha mai provato nulla sulla sua pelle e deve trovare appoggio in qualcosa, qualsiasi cosa. Cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia: c’è una certa difficoltà a ragionare di valori, perché ci fidiamo troppo o troppo poco di questa parola e tendiamo a considerarli scatole chiuse da condannare o abbracciare. Invece sarebbe bello se potessimo discuterne. Non è che c’è una scala gerarchica decisa da una commissione a cui si può scegliere di aderire o no. Ciascuno decide per sè, e se non lo fa lui lo farà qualcuno al posto suo.
Somiglia un po’ a uno di quei discorsi da trombone su quanto sia importante recuperare i valori di una volta, e magari lo è, e allora chi se ne frega: questa fotta di essere giovani a tutti i costi ci ha fottuti e continua a fotterci, perché ci impedisce di fare un discorso serio, o di farlo senza vergognarsene e nasconderlo sotto tonnellate di finta ironia, una pippa mentale che sta già fabbricando un esercito di nevrotici. Un altro modo di vedere la cosa potrebbe essere quello dell’economia dell’attenzione. Il nostro tempo, le nostre stesse percezioni, valgono un sacco e siamo circondati da una cultura che fa di tutto per sottrarci brandelli di attenzione ed energie, un pezzo per volta, e alla fine della giornata ci lascia pieni di piccole frasi, slogan e aria fritta e un rancore incalcolabile. Magari fare attenzione ad altro, alle persone che ammiriamo, può essere un primo passo per bilanciare: più attenzione, meno stronzate.