Un libro di formazione camuffato da biografia surf, scritto da un giornalista di guerra. Perché tutto quello che sappiamo sul surf è falso e come venivano cresciuti i maschi occidentali del secolo scorso.

Fare surf

Un paio di anni fa ho iniziato a fare surf, sono entrato in acqua insieme a un simpatico siciliano ventenne che mi faceva da insegnante. Lo spot era a dieci minuti da casa e riuscivo ad andare nelle mattine libere dal lavoro, mi infilavo la muta e per qualche ora stavo in mezzo all’acqua limpida e calda del tirreno meridionale. Era la mia vacanza da tutto.

O almeno, l’intenzione era questa. Il rapporto che ho con il surf è complicato, così come qualsiasi altra cosa che riguarda il mare. Tra immersioni subacquee, pesca in apnea, un nonno pescatore che mi portava in barca quando avevo otto anni e i giri a vela quando vivevo alle Eolie un po’ di mare l’ho frequentato, e l’unica cosa che ho capito è che solo un matto può innamorarsi del mare. Rispettarlo sì, volergli bene anche. Abbassare la guardia, mai.

Nella testa di tutti surfare è sole, mare, divertimento, estate, uscire e farsi una Corona con qualche amico, e per quanto io mi sforzassi di farlo diventare tutto questo mi sono da subito reso conto che il surf è una di quelle cose difficili, sottilmente oscure, che se gli lasci scoperta la gola ti azzannano e non ti lasciano più.

Imparare ad andare in surf è difficile, quasi quanto imparare un’arte marziale o a scrivere come Don Winslow, che ha scritto due romanzi ambientati nel mondo del surf in cui i personaggi sono magnifici ma la scrittura sul surf è ridotta al lumicino. Fatichi come una bestia solo per imparare a pagaiare e a metterti in piedi per prendere un’onda, il takeoff, e mentre stai imparando devi vedertela con il mare che, psicopatico gradasso, ti manda incontro onde a sua discrezione e te le chiude proprio sulla testa.

Poi prendi la prima onda e sei fottuto. Ne vuoi ancora, e per averne ancora guardi le previsioni, osservi il mare che monta durante una tempesta e ti dici “forza, usciamo” per farti forza ed entrare anche se non lo faresti neanche ammazzato, e però non vuoi vedertela con la sensazione di avere rinunciato a qualcosa.

Onde da surf in Sicilia
Un po’ di onde catanesi…

Il mio modo di vivere il surf forse dipende anche dal fatto che ci sono arrivato dopo un percorso lungo, per tanti motivi. Ho aspettato tanto prima di salire sulla tavola, soprattutto perché vivevo in posti in cui non c’era il mare e poi, quando sono tornato in Sicilia, ho dovuto convincermi che era il momento di tornare in mare. Nel frattempo però ho accumulato un sacco di letture sul fare surf: i romanzi di Winslow, quelli di Kem Nunn – il vero maestro del surf noir – e diverse pubblicazioni on line, oltre a saggi sulla meteorologia marina nel mediterraneo. In passato avevo fatto skate e continuo a fare snowboard, ma il surf non c’entra nulla e lo sapevo, e allora continuavo a leggere.

Giorni Selvaggi

Mi piaceva l’idea di fare surf, ho fatto una specie di percorso inverso dalla lettura all’azione. Quindi, quando cinque anni fa è uscito Barbarian Days di William Finnegan, uno scrittore di cui ancora non avevo letto nulla, l’ho comprato in lingua originale e l’ho divorato. Avevo pensato anche di propormi a qualcuno come traduttore, ma qualche tempo dopo uscì la bella edizione di 66thand2nd, quella che ho appena finito di rileggere. Anche in italiano la scrittura di Finnegan è asciutta, semplice e tagliente – bravi Fiorenza Conte, Mirko Esposito e Stella Sacchini che lo hanno tradotto – e finisce per avere un risultato: ti innamori del surf.

La copertina del libro "Giorni Selvaggi", di William Finnegan, edito da 66thand2nd.

Finisci il libro e vorresti essere andato con Finnegan tra le Fiji, San Francisco e Madeira. No, vorresti tornare a quando avevi quattordici anni e potevi passare giornate intere, fino allo sfinimento, a imparare qualcosa, e quando finisci “Giorni selvaggi” vuoi imparare il surf e ti sembra, come dice la fascetta firmata da Geoff Dyer, di avere sprecato la vita non avendo mai messo piede su una tavola da surf.

Il libro di Finnegan riesce alla perfezione a fare capire quale dannazione sia avere una passione che ti accompagna per una vita, una cosa che non puoi lasciare neanche nel momento stesso in cui decidi che c’è qualcosa di più importante. Rischi di affogare, di farti male, di sacrificare tutto quello che hai a una cosa che nessuno ti ha ordinato e che altri guardano con indifferenza. Come ti guarda l’oceano.

Per me questa cosa è la scrittura ma ognuno ha la sua. C’è un segreto che si capisce solo quando ormai si è troppo avanti per tornare indietro: il surf non c’entra niente con la sua immagine, il sole il mare e la felicità (potete sostituire “surf” con la vostra ossessione e il suo stereotipo). Leggendo Finnegan e i suoi exploit a Ocean Beach, uscire in un mare a quattro gradi con cavalloni alti due volte una persona che ti risucchiano e ti schiacciano sul fondo, ti chiedi perché mai una persona dovrebbe sobbarcarsi tutta quella fatica e quei rischi solo per dire che si è riusciti a surfare. Lo stesso Finnegan, nel corso del libro, se lo chiede tra le righe ma non si risponde mai. E fa bene, perché la scrittura cattiva sul surf è piena di metafore sul surfare e la vita o il surfare e il sesso. In più, nel surf c’è un equilibrio sociale molto duro, a volte può finire a cazzotti per una precedenza non rispettata o ti possono spezzare la tavola, e c’è un localismo feroce, i nuovi arrivati in uno spot a volte devono faticare anche solo per raggiungere la line up (il punto in cui si aspetta un set di onde).

william finnegan fa surf a Tavarua, Fiji, 2002
William Finnegan a Tavarua, Fiji, nel 2002

La scrittura di Finnegan ha dei picchi in cui riesci a comprendere perché continui a prendere la tavola e a uscire, nonostante i tagli, il freddo, la paura e il fatto che il surf sia un’attività inutile come poche, almeno agli occhi della società. Qui parla del modo in cui i surfisti guardano alle onde:

Per un surfista in attesa sulla lineup che cerca di decifrare lo swell, il problema in effetti potrebbe tradursi in chiave musicale. È possibile che quelle onde avanzino in un tempo di 13/8, sette set ogni ora, e che la terza onda di ogni set si allarghi e si impenni in una sorta di crescendo dissonante? O quella mareggiata è uno di quegli assolo jazzistici improvvisati da Dio, la cui struttura trascende la nostra comprensione?

“Giorni selvaggi”, pag. 373

Musica e onde, surf e musica jazz: prima avevi la mia curiosità, ora hai la mia attenzione, Mr. Finnegan. Che diventa quasi un applauso in questa scena. Finnegan sta surfando a Tavarua, un atollo delle Fiji su cui ha trovato la sua onda perfetta. È su quell’isola da una settimana con il suo amico Bryan, con cui sta girando il mondo, e sono soli, a parte qualche serpente velenoso. Hanno solo un mucchio di legna per accendere un fuoco e segnalare a un villaggio su un’altra isola che hanno bisogno di soccorso. A sera inoltrata, Finnegan sta ancora surfando:

Una sera, molto dopo il tramonto, con le prime stelle già spuntate, presi un’onda che si sollevò dall’acqua deviando lontano dalla barriera corallina, in direzione del mare aperto – benché sembrasse impossibile. Dal cavo si irradiava una fosca luce verde bottiglia, mentre un biancore di schiuma era sopra di me. Tutto il resto, la parete increspata dal vento, il canale di fronte, il cielo era di una sfumatura blu-nera. Mentre deviava, sempre di più, ebbi l’impressione di surfare verso il nord di Viti Levu, verso la catena montuosa dove sorgeva il sole. Non è possibile, diceva la mia mente. Vai avanti. Quell’onda sembrava una prova di fede, una prova di sanità mentale, oppure un gigantesco dono non meritato. Sembrava che le leggi della fisica fossero sospese. Un’onda scavata che si infrangeva puntando verso il largo. Non era possibile. Era come un treno fuori controllo, un’eruzione di realismo magico, con quella luce da fondale marino e quella specie di chioma di pizzo bianco. Gli tenni testa. Alla fine, ovviamente, deviò verso riva e incontrò la barriera corallina, digradando verso il canale. A Bryan non raccontai niente. Non mi avrebbe creduto. Non era un’onda terrena, quella.

“Giorni selvaggi”, pag. 225

Quello che ti fa l’oceano quando ci stai dentro per troppo tempo. Realismo magico in chiave surfistica. Sembra di sentire l’odore dell’acqua, una cosa a cui Finnegan non accenna mai durante il suo brano. Eppure evoca talmente bene la scena che si potrebbe pensare di essere stati lì. Qualsiasi storia andrebbe scritta così. 

Il libro di William Finnegan ha questa natura doppia, si sforza di parlare solo di surf perché, come dice lo stesso autore, il surf è il luogo in cui è tornato per tutta una vita, come se fosse casa. Ma c’è un esplosivo nascosto ed è la storia della vita di Finnegan, che cambia sembianze nel corso degli anni esattamente come cambia il suo surf. I capitoli di “Giorni selvaggi” raccontano le diverse fasi della vita in cui si trova Finnegan e i suoi problemi, dalla gioventù violenta nelle Hawaii alla vita da reporter e scrittore.

Crescere

In effetti “Giorni selvaggi” è un libro di formazione più che un diario di surf. Perché tra le onde Finnegan c’è cresciuto, e dunque non è un caso che il suo libro sia anche un libro su come si diventa uomini, su cosa sia la mascolinità tra il ventesimo e il ventunesimo secolo. C’è sempre una sottile tensione, un oscillare incoraggiato anche dal surf, tra pose da macho e disprezzo di sé stessi, tra cercare l’amicizia tracciando limiti ferrei, tra l’essere in conflitto con qualcuno e, proprio per questo, esserci più affezionato che mai. Per due terzi del libro Finnegan non descrive solo il surf, ma le amicizie con cui è andato a scoprire onde, delle bromance che si nutrivano di surf ma coinvolgevano tutto il resto. Dall’inizio del suo viaggio intorno al mondo Finnegan racconta dei quattro amici con cui va a caccia di onde, descrive la sua amicizia con loro, i punti di contatto e quelli di frizione.

Ma c’è anche la prima parte, quella sull’infanzia vissuta da Finnegan tra gruppi di adolescenti che si picchiavano, si incontravano per rese dei conti, si bullizzavano a vicenda. Finnegan ha vissuto infanzia e adolescenza sguinzagliato per le strade di Honululu, ma racconta di un clima fatto di scazzottate, angherie e intimidazione psicologica che qualsiasi maschio italiano cresciuto in qualche quartiere periferico fino agli anni ottanta riconosce fin troppo chiaramente:

Se ripenso a tutto questo, rimango stupito da quanta violenza abbia segnato la mia infanzia. Niente di letale, niente di spaventoso, per carità, ma la violenza era parte essenziale della mia vita quotidiana, in un modo che adesso sembra preistoria. I ragazzi più grandi tormentavano o addirittura torturavano quelli più piccoli. A me non passava neanche per l’anticamera del cervello di lamentarmi. Tiravamo di boxe per strada. e gli adulti non battevano ciglio. In realtà, a me non piaceva fare a pugni, tantomeno perdere e, se non ricordo male, avevo quattordici anni l’ultima volta che sono stato coinvolto in un combattimento come si deve. Ma quando ero ragazzo quella era la norma per l’Americano Medio (…)

“Giorni Selvaggi”, pag. 93.

Questo clima, i pugni, l’impossibilità di lamentarsi perché ai grandi non riguardava nulla di tutto quello che passavamo per strada, era la norma anche in Italia, almeno fino a un certo punto e nelle zone periferiche, e non ricordo di averne letto in nessun altro libro in modo così chiaro. Tra i giovani maschi girava una quota di violenza che tutti davamo per scontata: ti battevi con altri ragazzini, ti alleavi per andare a disturbare altre bande o per difenderti dai bulli, quelli più grandi potevano picchiarti quando volevano ed erano circondati da quelli con cui potevi vedertela tranquillamente ma che ricorrevano a quella protezione per spadroneggiare. E allora ti giuravi che quando li avresti beccati da soli gliel’avresti fatta vedere. Era normale così, ci si adattava.

Si parte dal surf e si arriva a riflessioni su come venivano, e vengono, allevati gli uomini all’inizio del ventunesimo secolo: non male per un libro che parla solo di surf. Va letto e riletto, perché Finnegan scrive benissimo e soprattutto perché apre un punto di vista non banale – non tossico – sulla psiche maschile. E poi ci sono le onde, benedette le onde che ci salveranno. Nel momento in cui scrivo siamo tutti rinchiusi per la quarantena da coronavirus, e forse non c’è modo migliore di passarla che guardando il mare e viaggiare per il mondo con William Finnegan.

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