
Cerco di navigare in questa situazione, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, con gli strumenti che mi sono costruito nel corso degli anni: la rilettura di un saggio di Orwell sul nazionalismo, le pagine di Hitchens e la sua indignazione, più molti echi delle letture sul totalitarismo che ho fatto in tutti questi anni. Mi stupisce vedere come, tolti gli inevitabili aspetti connessi al presente – le immagini social, le manifestazioni – questa è una guerra su cui sembra di vedere lo svolgersi in diretta di un vecchio manuale di storia. Qui non c’è asimmetria, non c’è la guerra di un esercito contro formazioni irregolari (non ancora), non c’è quella puzza ideologica, etnica e militare che tutti i conflitti degli anni passati portavano con sé, trasportando omicidi di civili e giustificandoli come importazione della democrazia. Qui c’è, o dovrebbe esserci, la chiara aggressione di uno stato ai danni di un altro, che si difende come può e alza la voce come fa un paese in guerra.
La linea
Che quando si entri in guerra le alternative si riducano drasticamente non è una novità, né è una cosa su cui c’è bisogno di fior di scrittori per svelarla e analizzarla. A un certo punto, soprattutto in guerre convenzionali come questa, c’è una linea del fronte e bisogna scegliere da che parte trovarsi (non sto qui a citare Solzenicyn sulla linea che passa in mezzo al cuore, perché ancora non siamo a quel livello, ma è un’immagine che tengo da parte perché non farebbe male pensare ogni tanto in quei termini, a noi occidentali presi dal ridacchiare all’idea che si possa avere una convinzione). Non sempre si tratta di scelte facili, né esiste sempre la parte ideale da cui trovarsi: persino chi faceva la guerra partigiana contro i nazisti e i fascisti in Italia trovò utile e giusto dividersi in più formazioni, ciascuno con le proprie motivazioni e i propri obiettivi. Questo genere di divisione e di diversità, e il modo in cui si sviluppò la Resistenza in Italia, fu una grande ricchezza e in definitiva anche il motivo che riscattò il nostro paese dalla sua totale acquiescienza con il fascismo, perché i partigiani riuscirono a tenere insieme non solo i fatti militari ma accesero anche una fiamma di rinascita civile, di unione intorno a un minimo comune denominatore che era la democrazia, e la spinta a superare la mezzanotte del secolo, quella segnata dai totalitarismi – non è un caso se la parola “totalitario” è stata inventata in Italia, da Mussolini, e quindi in Italia ha visto la sua maggiore opposizione popolare, in armi.
Al di fuori del caso limite della Resistenza, bisogna ammettere che non tutte le posizioni in guerra sono ideali, ma che comunque ci sono alcune posizioni che è meglio preferire alle altre, come nella situazione che si sta sviluppando in questo momento nel cuore d’Europa. Dopo aver ammassato truppe per mesi, e aver preparato il terreno politico e ideologico per anni, la Russia ha invaso l’Ucraina al solo scopo di piegare la popolazione, toglierle qualsiasi possibilità di scegliere per sé il modo in cui vuole governarsi e, come ha detto quella parodia di autocrate di Putin, farla tornare russa. In questa situazione qualsiasi sostenitore della democrazia, dell’ideale incarnato dall’Europa e dall’occidente, dovrebbe chiedersi qual è la scelta giusta da fare, in proprio o tramite il proprio governo, e per me è quasi ovvio: fino a che le bombe non cessano, dovremmo dare tutto il sostegno che sia possibile dare agli ucraini senza rischiare che la guerra diventi qualcosa di troppo grande e imprevedibile per il resto del mondo. Si tratta, secondo me, del minimo che è possibile fare senza prendere direttamente in mano le armi, e questo minimo è anche quello che dobbiamo al popolo ucraino, che in queste ore sta dimostrando quanto valga l’idea, la promessa della democrazia e quanto si debba lottare per tenersela vicina, soprattutto dopo che per buona parte degli ultimi 80 anni si è sperimentato un sistema diverso di cui garanti erano proprio gli invasori di oggi.
(a margine: ma com’è che nelle parole di certa pubblicistica bisogna fare molta attenzione a non confondere il popolo russo con chi lo comanda, a non demonizzarlo, e però tutti gli ucraini e Zelensky sono dei nazisti senza possibilità di redenzione? Misteri.)
“Senza se e senza ma”
Dunque è ancora più difficile capire perché una parte dell’opinione pubblica (quanto importante? Quanto rilevante? Sarebbe interessante capirlo, visto che in parlamento sono irrilevanti, ma poi fanno manifestazioni di piazza in cui dicono sempre di essere milioni) trovi così comodo dire che la sua parte è quella “della pace”, e così difficile dire chiaramente che l’aggressore è la Russia, che l’aggredita è l’Ucraina, e che ogni altra considerazione, se pur può essere utile per dare un quadro storico alle cose, al momento non serve proprio a superare la fase in cui si tirano le bombe contro della gente che ha avuto l’ardimento di voler decidere da sé.
Molta gente trova che la parte più importante del discorso pubblico, in questo momento, sia prendere le distanze dalla Nato, per tutto quello che ha fatto in passato e per quello che, si suppone, continuerà a fare in futuro. Il catalogo è lungo, da quelli che giurano che la guerra sia voluta dalla Nato per affamare la Russia a quelli che giustificano la Russia perché si è sentita aggredita, ma hanno tutte uno strano filo comune: evitano accuratamente di chiamare i responsabili con i loro nomi e cognomi, e hanno la strana tendenza ad accettare lo stato delle cose. Sono “per la pace”, ma alle condizioni di pace imposte da una parte precisa, che però non vogliono nominare ad alta voce.

Questa neutralità morale inizia a sembrarmi debolissima oltre che disonesta. È flebile e inconsistente, perché pretendere a tutti i costi la pace da una posizione di neutralità assoluta, in questo momento, serve solo a bloccare il discorso là dove invece dovrebbe partire. Lo ha scritto Ezio Mauro questa mattina: l’esigenza di pace deve farci riconoscere quali sono i torti e le ragioni, quali sono i punti di riferimento che vogliamo seguire, e si deve per forza passare da un riconoscimento del fatto che qui l’aggressore è la Russia, che si è macchiata di una gigantesca violazione del diritto internazionale, che ha aggredito un altro popolo e che nel farlo ha scatenato una guerra nel cuore d’Europa, con tanto di collezione di crimini di guerra. Se ci fermassimo alla richiesta di pace e disarmo senza condizioni, l’unica cosa che otterremmo è di fare negoziare l’aggressore da una posizione di forza, permettendogli di mettere le diplomazie di fronte al fatto compiuto dell’annessione dell’Ucraina.
“Ma non potreste farla finita?”
Il che fa pensare che alcune di queste posizioni pacifiste nascano nella disonestà intellettuale. Questo appello alla diplomazia senza guardare alle forze in campo né a chi è aggredito e chi invece si sta difendendo ha, a ben vedere, uno sbocco soltanto, che infatti ha iniziato a emergere, seppur con molta timidezza. Non nelle discussioni ampie, non negli articoli di giornale o nei convegni, ma su twitter e nella manifestazione pacifista di sabato scorso qualcuno più coraggioso lo ha detto senza mezzi termini: vogliono che l’Ucraina si arrenda. Vogliono che accetti le condizioni dettate dalla Russia, quelle farneticazioni sulla denazificazione e sulla demilitarizzazione, e vogliono che l’Ucraina diventi una provincia russa. A denti stretti dicono che il fatto che l’Ucraina stia resistendo è il vero problema, e che la Nato non dovrebbe fornirle armamenti, e il fatto che stia incoraggiando il popolo ucraino a resistere è la prova che l’occidente sta cercando di fare una guerra alla russia.
Tutto questo sfoggio di argomenti da una posizione moralmente neutra hanno, insomma, lo sbocco finale di dare alla Russia esattamente quello che vuole la Russia. L’opporsi alla fornitura di armi agli ucraini si veste per bene delle parole dell’articolo undici della Costituzione, parole nobilissime che però pochi riescono a citare per intero, ma il caso vuole che non fornire armi agli ucraini sarebbe il modo perfetto per fiaccarne la resistenza e fare cessare i combattimenti con una vittoria di Putin.
La diplomazia, il trattare, il negoziare: tutti termini usati come fossero intercambiabili, invocati come alternativa alla guerra in cui si sta “nè con la Nato né con la Russia”, come se adesso fosse la Nato ad avere chiuso i canali diplomatici, come se Ue, Macron, Scholtz, Mario Draghi, la diplomazia americana e quella di altri paesi non Nato né Ue come Israele non fossero impegnati di continuo per cercare la fine delle ostilità, e come se Putin non violasse il cessate il fuoco per tirare sui civili a colpi di mortaio.
Non so quanta malafede ci sia in questo atteggiamento, quanto attaccamento alla propria identità (da tenere al riparo più di un tetto ucraino: quello si ricostruisce), e quanta disinformazione e propaganda messe in giro dalla Russia negli ultimi anni in tutta Europa. Di certo è scattato un riflesso condizionato da teatro dell’assurdo in cui la colpa della guerra è di tutti, proprio tutti, meno dell’aggressore che non ha fatto nulla per nascondere la sua aggressione. E che, anzi, la rivendica.